Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  agosto 26 Domenica calendario

Ragli di rana e sole di notte. Ricette di un’Elena Ferrante del ’300

C’è un nome, nella letteratura italiana, che è quasi solo un nome, privo di riferimenti biografici. Una specie di Elena Ferrante del Trecento, non perché si sia voluto nascondere nel mistero ma perché è diventato un mistero a sua insaputa. Tutto ciò che si sa di Niccolò Povero è che ha scritto due poemetti noti come Le mattane, tramandate da sei codici, e che il suo nome compare solo nell’unico manoscritto quattrocentesco. 
Nell’epistolario di santa Caterina da Siena si trova una lettera indirizzata a un certo «Niccolò Povero, di Romagna, romito a Firenze» e allo stesso personaggio allude una lettera datata 4 novembre 1378 e diretta a un sarto fiorentino. Se si trattasse dell’autore in questione, avremmo a che fare dunque con il caso interessante di un chierico («romito») dedito a testi comici sperimentali. È quanto osserva Vittorio Celotto nell’introduzione all’edizione critica delle Mattane (Salerno). Numerosi sono gli indizi interni che collocano nell’ultimo quarto del Trecento i due componimenti, disseppelliti all’inizio del Novecento dal filologo Ezio Levi, segnalati da Natalino Sapegno e analizzati da studiosi del folklore come Giuseppe Cocchiara e Piero Camporesi, che non esitano a farne autorevoli rappresentanti della tradizione della poesia popolare e giullaresca dei primi secoli. 
Levi ha interpretato il cognome, Povero, come un epiteto che designava il suo presunto status di straccione, pezzente, vagabondo per le strade e i mercati fiorentini, la cui attività sarebbe stata quella di rivolgere frizzi ai passanti e intonare canti burleschi nelle piazzette. In realtà è ormai noto, specie dopo gli studi di Contini, come il filone comico non sia necessariamente un’espressione popolare ma il versante speculare, e spesso altrettanto colto, della poesia aulica. Le «mattane», del resto, rivelano una discreta consapevolezza stilistica e metrica. Il giullare, inteso in senso generico, cede il passo a una varietà eterogenea di mestieranti e professionisti, saltimbanchi, banditori, rimatori dilettanti, musicisti, poeti di corte, provenienti dalla piccola e media borghesia cittadina tra fine Tre e inizio Quattrocento, fino al barbiere fiorentino detto il Burchiello, maestro dell’assurdo al punto da inaugurare, con i suoi sonetti, un intero filone comico-satirico, giocoso, stralunato, detto «alla burchia», che avrà lunga fortuna ben oltre le avventure del Bertoldo di Giulio Cesare Croce. E proprio di questo filone burchiellesco le «mattane» del Povero rappresentano un precedente di rilievo, una sorta di poesia burchiellesca prima di Burchiello. 
Cosa sono le due «mattane», così chiamate nella tradizione manoscritta, ovvero stramberie, stravaganze? Sono lunghi capitoli in terza rima (dunque componimenti poetici derivati dalla terzina dantesca e destinati sempre più a diventare il genere metrico della satira) che mettono in scena disparate visioni assurde e senza senso, tali da scatenare il riso. Nella prima (che si definisce «paneruzzola») si fantastica sul contenuto di una piccola cesta da frutta; la seconda contiene una serie di ricette paradossali illustrate da un medico ciarlatano apparso in sogno al poeta. Linguaggio gergale e idiomatico, disarticolazione ritmica, accumulazione seriale, equivoci verbali, associazioni a-logiche sono gli elementi distintivi della tecnica «alla burchia» che troviamo anche nelle «mattane». È il registro del nonsense inserito dentro una formula metrica predefinita che permette di accogliere una libera narrazione improntata alla serialità, sull’enumerazione caotica e a forte espressività linguistica. 
I risultati sono molto divertenti, per esempio nei numerosi casi in cui vengono accostate senza logica affermazioni in sé apparentemente sensate. Nel primo testo troviamo un io narrante che tiene al guinzaglio mille draghi e perciò chiede al lettore di rallegrarsi della possibilità che gli venga inviata una piccola bacinella contenente i pesci di ben mille laghi con sopra una campana d’oro capace di chiamare a raccolta mille elefanti armati. Dove in tutta evidenza ci si prende gioco dell’epica animalesca medievale: non mancano, tra l’altro, i gufi che cavalcano, le lumache che piangono, i barbagianni che partono in battaglia. E nella follia inventiva può capitare anche che qualcuno mandi Gerusalemme in Puglia. 
Paradossi visivi e concettuali, come quando il narratore sostiene con la stessa convinzione di essere «ben vestito (…) d’un fine panno ricco di doagio», cioè di una stoffa pregiata delle Fiandre, e però di non avere «nulla indosso». Oppure là dove si immagina che da un terreno seminato a cavolini crescano dei «calzari», cioè delle scarpe. Ma è la seconda delle «mattane» a risultare ancora più irresistibile negli effetti comici: si tratta, come detto, di una sequenza di ricette pseudoscientifiche che imitano, capovolgendoli, gli schemi argomentativi e il lessico tecnico della trattatistica medica coeva ricca di verbi ad hoc, come «ungere», «pestare», «bollire», «mescolare», «togliere», «cuocere» per realizzare però, nella «mattana», «esperimenti» del tutto improbabili che minacciano conseguenze nefaste sui malcapitati pazienti del gran maestro dei cialtroni, antenato dei fanfaroni dottori di Pinocchio ma anche di tanti santoni-guaritori che ancora oggi, nel mondo reale, cercano di accalappiare gli ingenui. 
Alcuni consigli? Le sostanze «miracolose» appartengono per lo più al mondo vegetale e animale: per far «crescere i capegli» servono «cicale lesse» e «grilli bianchi» ridotti in polvere con i quali ungersi le palme dei piedi standosene al sole per 13 notti senza dormire. Se invece il problema è la gotta, bisogna prendere «tre once di vento» e farle bollire insieme con una filza di pilastri cotti vegliando per 3 giorni. Per il male alla gola sono consigliabili 3 ragli di ranocchi pestati dentro un involucro di carta e mescolati con della nebbia cotta con l’alito dei granchi: il tutto da tenere sui piedi fino al risveglio. Il rimedio al mal di fegato? Un colpo di «bombarda» (cioè di macchina da guerra). Emicrania? Niente di meglio che mungere un moscone e pestargli il cervello. I geloni? Si curano applicando mascelle di formiche matte mescolate nell’acqua di scolo, eccetera. È solo l’inizio.