Corriere della Sera, 26 agosto 2018
Intervista a filosofo Salvatore Veca
Professor Salvatore Veca, filosofo militante: posso definirla così? Oltre all’insegnamento universitario, ai famosi seminari della Fondazione Feltrinelli, alla creazione di nuove istituzioni accademiche, alla stesura della Carta di Milano in occasione dell’Expo, sono quarant’anni che lancia granate nell’accampamento della sinistra. Tra un po’ rischia di non trovare più nemmeno una capanna, non crede?
«La sinistra potrebbe sparire. A meno che non cominci a guardare oltre il proprio ombelico. Un’idea ce l’avrei, è sotto il naso di tutti da settant’anni, basterebbe metterla in pratica».
Vale a dire?
«L’articolo 3 della Costituzione: pari dignità per tutti e l’impegno a rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona. Non è un discorso di sinistra? Però bisogna tornare a essere credibili, contrastando le povertà, garantendo cibo adeguato per tutti, abbattendo le diseguaglianze entro e tra le società, avviando politiche di crescita con lavoro dignitoso. Con questa classe dirigente non credo sia possibile, ci vogliono ragazzi nati nel nuovo mondo. Io, ad esempio, sono un vecchio signore del Novecento che può solo alzare la mano e dare qualche spunto di riflessione».
Marx è morto, le ideologie sono morte, il buonismo ha fatto danni e i dirigenti del Pd sono in coma. Resta il buon senso, mi pare di capire. Non è un po’ poco per ripartire?
«Sa qual è il problema? La sinistra si sveglia sempre troppo tardi la mattina. Ne so qualcosa. Per sette anni ho ingaggiato un corpo a corpo con Marx: nel ’77 scrissi che aveva pregi e limiti. Polverone a sinistra. Cercai allora di dare il mio contributo per innovare una cultura ossificata con il libro La Società giusta. Altro casino. Al Gramsci di Bologna mi processarono: traditore della classe operaia, riformista! In un’intervista a L’Espresso mi chiesero, con ironia, cosa significasse “società migliore”: “L’ho tratta da John Dewey e da un film con Robert Redford, The Runner, dove il candidato ripete: siamo il Paese più potente del mondo, perché nelle nostre scuole c’è l’apartheid, perché se uno si ammala e non ha soldi crepa? Ci sarà un modo per rendere migliore questa società”. Nell’89, con Michele Salvati, proponemmo di cambiare nome al Pci. Fabio Mussi alzò il sopracciglio e rispose che certe cose si fanno solo per cambiamenti epocali. Se il crollo del Muro di Berlino non bastava… Occhetto alla fine fece ciò che non poteva non fare. Allora cominciai a pensare che una sinistra democratica dovesse ispirarsi ai valori di una società aperta con l’obiettivo primario dell’equità e della qualità della vita. Ma la sinistra era impegnata nelle solite battaglie intestine per accorgersi che la gente si stava incazzando. Così, nella società della sfiducia, gli impresari della paura hanno inventato il popolo omogeneo delle brave persone e replicato la celebre massima di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Dunque, nulla di nuovo. La mia email ai giovani è questa: non mollate!».
Ma il mondo oggi è troppo diverso da quello in cui si è formato lei...
«Vero: la Milano della mia infanzia era disciplinata, frammentata in ceti e culture omogenee. I tempi erano scanditi dall’apertura delle fabbriche. Oggi prevale il disorientamento: mentre noi parliamo, gli algoritmi creano vincenti e perdenti. Non creda però che il Novecento sia stato una scampagnata. Mio padre era ufficiale a Civitavecchia e l’8 settembre i tedeschi lo arrestarono e lo spedirono in un campo di concentramento in Polonia, dove tentò due volte la fuga e venne inscenata la sua fucilazione. Alla fine del 1944 firmò una falsa accettazione della Repubblica di Salò per tornare in Italia. Io sono nato due mesi dopo la sua deportazione e l’ho visto solo dopo la Liberazione. Papà era affettuoso ma erogava un senso di disciplina. Appena mi vide con i boccoli da putto disse: “Fategli tagliare i capelli”. Nel frattempo era nato mio fratello Alberto e cominciai a frequentare le scuole elementari alla Leonardo Da Vinci. La mia maestra, Maria Bertin, mi insegnò a imparare e quel bagaglio mi aiutò fino agli anni del ginnasio al Carducci. In prima liceo studiavo poco e prendevo voti alti. Mio padre si insospettì e mi trasferì al Parini, struttura austera e gerarchica. Il professor Pelosi, insigne grecista, mi accolse chiedendomi: “Adesso anche i barbari entrano al Parini?”. Avevo finito di vivere di rendita».
Divenne «di sinistra» per reazione?
«Al Parini c’era un preside autoritario ma anche Maria Teresa Torre Rossi, la prof accusata di parlare di Mao in classe. Fu lei a svegliare la mia vocazione. Era legata al Piccolo di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Un giorno ci portò a teatro e ci fece scrivere un tema. Grassi lesse il mio e volle conoscermi: “Ti piacerebbe collaborare con noi?”. Era una macchina da guerra disciplinatissima: qualsiasi cosa facessi, Grassi ti mandava un biglietto con complimenti o critiche. Dava il meglio di sé nelle telefonate in cui esibiva, con nonchalance, il tal teatro di Zurigo o l’Ensemble di Brecht. Lo spiazzò il ’68: non poteva accettare di essere messo sotto inchiesta, come se, preservando tradizioni e istituzioni, fosse per ciò stesso autoritario. Si confondeva autorevolezza con autorità».
Ma preferì la filosofia: come accadde?
«Mi iscrissi a Lettere alla Statale. I docenti erano giganti: Mario Fubini per Letteratura italiana, Ignazio Cazzaniga Letteratura latina, Enzo Paci Filosofia teoretica, Ludovico Geymonat Filosofia della scienza... Cesare Musatti teneva le lezioni alle 8 di mattina per scoraggiare l’enorme afflusso di studenti. Enzo Paci trasmetteva una sorta di eros per la filosofia. Fu così che me ne innamorai».
Lei era già troppo grande nel Sessantotto?
«Ero assistente volontario. Io e Pier Aldo Rovatti negoziammo con Salvatore Toscano, Mario Capanna e Luca Cafiero la richiesta di contro-corsi: “Va bene, affianchiamoli ai corsi”. Capanna disse: “Sì, così finisce il Movimento. Noi dobbiamo rilanciare continuamente per mettere in moto una spirale crescente di consenso studentesco”».
Come ebbe il primo incarico?
«Una mattina, a Cervinia, rincoglionito perché avevo fatto notte, scesi a prendere i giornali e mi sentii chiamare: “Dottor Veca, anche lei qui?”. Era Norberto Bobbio, mi aveva visto una volta a Torino e si ricordava di me. “Facciamo una passeggiata”, disse: era un gran camminatore, io gli banfavo dietro; a ogni passo indicava una montagna, “quello è il Grandes Jorasses…”, ma se non le conosci, le cime sembrano tutte uguali. Col fiatone cercavo di interloquire: “Sì, sì magnifico”. Poi si fermò, mi fissò e disse: “All’università della Calabria cercano professori”. Nel 1973-74 ebbi il primo incarico e a Cosenza incontrai il più grande amico della mia vita, Marco Mondadori: ne avrei sposato la sorella».
Nicoletta, figlia di Alberto, primogenito di Arnoldo e fondatore del Saggiatore...
«Marco mi invitava spesso nella loro villa di Camaiore. Nell’estate del ’76, pochi mesi dopo la morte del padre, una sera mi capitarono in mano foto di Nicoletta. Non l’avevo mai vista, sapevo solo che aveva tre bambini e si stava separando dal marito. Qualche mese dopo, a casa di Marco, arrivò con un enorme carico di tende bianche. “Piacere Salvatore”: emanava un’attrazione magnetica col sorriso, la voce e quel suo modo di navigare nel mondo. Cominciammo a frequentarci. La sera andavamo al Tencitt, in via Laghetto. Suonavano sempre Genova per noi. Tra un gin tonic e un gin fizz correvano fiumi di storie. Dopo Natale passammo un weekend a Camaiore, io avevo una Renault 4, lei una 850 scassata. Al rientro bucammo una ruota, e la cambiai. Poco dopo se ne forò un’altra. Si fermò un tir francese. “Andiamo a Milano, in viale Tunisia”. “Mais oui, Tunìsia”. Da allora andai a vivere da lei in Tunìsia, con l’accento sulla prima “i”».
Dopo la Calabria il Dams di Bologna, quindi Milano e infine Firenze. Com’era insegnare al fianco di Umberto Eco?
«Serate esilaranti. Si usciva a cena con Furio Colombo e qualche assistente. Umberto e Furio insieme erano un numero di cabaret. I loro cavalli di battaglia erano il sottomarino e l’uomo cacciatore; cominciavano con luoghi comuni e andavano avanti inanellando battute. Eco aveva l’intelligenza di un funambolo. Lo conobbi a Villadeati a casa di Inge Feltrinelli; suonò il flauto fino alle tre di notte, poi disse: “Vado a dormire, domani devo dare un articolo al Manifesto e voglio scriverlo in latino”. La mattina dopo, alle 11, mi allungò un foglio con un testo che imitava lo stile delle encicliche».
Anche Eco è morto, non ci resta che tornare al presente.
«Ha ragione, le cose passate sono risucchiate in un tempo che non c’è più, ma senza il passato non c’è futuro e la malattia del nostro tempo si chiama presentismo».