Corriere della Sera, 26 agosto 2018
Sparite tutte le «talpe» a Mosca. La Cia resta senza fonti sulla Russia
Due anni fa furono i servizi segreti di Washington a denunciare le infiltrazioni russe nel sistema elettorale americano, mentre le società tecnologiche della Silicon Valley non solo non si erano accorte delle penetrazioni illecite nelle loro reti sociali, ma hanno a lungo negato la rilevanza della cosa. Oggi le società di big tech si mostrano estremamente vigili nei confronti di un fenomeno comunque esploso in modo difficilmente controllabile, con Mosca imitata anche da altri regimi, come l’Iran, nei tentativi di alimentare il caos negli Usa e anche in Europa: nei giorni scorsi Facebook ha neutralizzato centinaia di siti falsi creati per seminare il caos in America, mentre Microsoft ha scoperto attacchi contro i centri di elaborazione politica della destra Usa. Intanto, però, l’intelligence americana, pur consapevole che il Cremlino è sempre all’attacco, non riesce più a raccogliere informazioni sulla strategia di Putin.
In altre parole la Cia e gli altri servizi continuano a registrare gli attacchi informatici che vengono lanciati in continuazione grazie alle loro potenti «orecchie» digitali, ma non riescono più o ottenere informazioni dalle spie sparse in Russia, soprattutto quelle vicine al governo. A rivelarlo è il New York Times che registra le preoccupazioni (anonime, vista la delicatezza della materia) di strutture investigative che hanno visto improvvisamente essiccarsi le loro fonti informative.
Gole profonde individuate e messe a tacere dai servizi russi? Gli americani ritengono di no. Pensano che siano, piuttosto, le loro stesse fonti che hanno deciso di tirarsi indietro. Perché? Una risposta precisa non c’è, ma sono state fatte varie ipotesi, tre delle quali probabilmente concorrono a spiegare un fenomeno che sta creando molto allarme a Washington: crescono, infatti, i timori non solo di interferenze nelle elezioni di mid-term del prossimo novembre, ma anche di cyberattacchi alla rete elettrica o ad altre infrastrutture vitali.
In primo luogo ci sarebbe l’allarme generato dalla durezza delle azioni di controspionaggio di Mosca, col sospetto uso di gas nervino per eliminare, anche all’estero, agenti nemici. Inoltre l’espulsione di decine di diplomatici Usa dall’ambasciata americana di Mosca – la rappresaglia del Cremlino per la cacciata di 60 funzionari russi da Washington – avrebbe assottigliato di molto i canali di comunicazione che l’intelligence aveva creato in Russia. Un terzo fattore, però, sarebbe legato alle ambiguità della Casa Bianca nei rapporti con la Russia e all’evidente sfiducia di Donald Trump nei suoi stessi servizi segreti. Una situazione paradossale, culminata nella conferenza stampa congiunta con Putin al termine del vertice di Helsinki di metà luglio nella quale il presidente americano dette credito alle dichiarazioni d’innocenza del leader del Cremlino rispetto alle interferenze nelle elezioni del 2016, mostrando di non dare alcun credito alle attestazioni di colpevolezza di Mosca emessa da tutte le agenzie federali, dalla Cia all’Fbi: strutture investigative guidate ormai da molto tempo da uomini scelti dallo stesso Trump.
Dopo Helsinki e davanti alla sollevazione dei suoi servizi segreti, il presidente ha tentato goffamente di dare un senso diverso alle sue parole, ma la sostanza della questione non è cambiata: l’intelligence non sembra più avere le spalle coperte dalla Casa Bianca. In queste condizioni gli informatori potrebbero essere spinti a tirarsi indietro non solo per il timore di essere individuati dal controspionaggio russo, ma anche per il rischio di vedere la loro identità messa in piazza, per insipienza o in modo malevolo, da chi dovrebbe proteggerli.
Quest’ultimo dubbio, sicuramente molto pesante e da menzionare con cautela, è stato alimentato dal caso di un informatore dell’Fbi, Stefan Halper, la cui identità è stata rivelata, con l’autorizzazione della Casa Bianca, durante un’audizione parlamentare a porte chiuse.