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 2018  agosto 26 Domenica calendario

La politica delle sanzioni e i troppi effetti indesiderati

Le sanzioni sono le armi di una guerra combattuta con altri mezzi. Quando non possono o non vogliono aggredire e occupare il territorio di un potenziale nemico, gli Stati decidono di assediarlo e affamarlo. Qualche esempio? Accadde nel 1806 quando Napoleone firmò un decreto a Berlino con cui proibiva a tutte le navi provenienti dalla Gran Bretagna di entrare nei porti dell’Impero francese. Accadde nel novembre del 1935, pochi giorni dopo l’invasione italiana dell’Etiopia, quando 50 Paesi della Società delle Nazioni approvarono il boicottaggio delle esportazioni italiane e delle importazioni in Italia di materiale bellico. Accadde nel dicembre 1941, quando gli Stati Uniti, per arrestare l’espansione militare giapponese in Asia, congelarono tutti i crediti nipponici e proclamarono un embargo sull’esportazione verso il Giappone di materiali strategici, fra cui il petrolio. È accaduto dopo la rivoluzione cubana del 1959, quando gli Stati Uniti hanno colpito l’isola con un embargo che neppure Barack Obama, durante la sua presidenza, è riuscito a revocare.
Lo scopo dichiarato di queste misure è quello di persuadere l’avversario a correggere la sua politica. Ma nelle intenzioni degli Stati Uniti, più recentemente, quasi tutte le sanzioni adottate a Washington si propongono, più o meno esplicitamente, un cambio di regime, vale a dire la sollevazione del popolo contro il proprio governo. Questo sembra essere particolarmente vero nel caso dell’Iran. Quando i giovani iraniani, nel giugno del 2009, scesero nelle vie di Teheran per protestare contro la discutibile vittoria di Mahmud Ahmadinejad nelle elezioni presidenziali, gli americani non esitarono a incoraggiare la protesta. Oggi. dopo la vittoria di Trump, mentre le sanzioni ripristinate incidono pesantemente sulle condizioni di vita degli iraniani, Washington coltiva le stesse speranze e sembra disposta ad applicare una stessa ricetta alla Russia di Putin.
Forse sarebbe utile ricordare agli Stati Uniti che una tale politica produce generalmente uno di questi effetti. Può provocare nel Paese colpito dalle sanzioni un rigurgito di nazionalismo che rafforza il regime al potere (come accadde in Italia nel 1935). Può aprire una lunga fase di incertezze e turbolenze in cui si farà strada, prima o dopo, un leader peggiore del suo predecessore. Può provocare una sanguinosa guerra civile e sollecitare l’intervento di altre potenze, come nel caso della crisi siriana. Quando sono attratti dalla prospettiva di un regime change gli americani dovrebbero ricordare che cosa accadde in Iraq quando si sbarazzarono di Saddam Hussein. Era un tiranno, ma il numero delle sue vittime è enormemente inferiore a quello degli iracheni che hanno perso la vita grazie alle condizioni create negli anni seguenti dalla guerra democratica degli Stati Uniti (circa 650.000 secondo Lancet, una nota rivista medica inglese).