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 2018  agosto 26 Domenica calendario

Sandro Veronesi intervista Òscar Camps, fondatore della Ong Open Arms

Lo scrittore Sandro Veronesi intervista Òscar Camps, fondatore della Ong Proactiva Open Arms impegnata nei salvataggi nel Mediterraneo
Allora: perché, visto che ero stato convocato su questa nave per la missione 48, siamo fermi nel porto di Barcellona? 
«Per la stessa ragione per cui sono ferme Aquarius, Sea Watch e tutte le altre navi Ong. Perché così decide l’Unione europea».
E qual è il pretesto?
«Ci hanno fatto quattro ispezioni in due mesi. L’ultima è stata severissima, e stiamo aspettando la risposta della Marina mercantile». 
Certo così diventa complicato. Ma cosa sta succedendo?
«Succede che si sta alterando il diritto marittimo internazionale, con il consenso dell’Unione europea, che permette a tutti i paesi del Mediterraneo di negare l’approdo impunemente. Questa è una nave di soccorso, ed è soggetta al diritto marittimo internazionale: noi lo rispettiamo, gli altri no. È ovvio che se salta quello il nostro lavoro diventa molto complicato, e ci ritroviamo in balia della speculazione politica». 
Perché l’opinione pubblica vi è così ostile? 
«È il risultato di una campagna di discredito dell’Unione europea, cominciata nel 2015, contro l’intrusione di queste organizzazioni indipendenti nella gestione delle emergenze umanitarie, e portata avanti attraverso i mezzi di comunicazione. Il Financial Times ha scritto che aveva le prove dei contatti tra Ong e trafficanti, ma quelle prove non le ha mai esibite, perché non ci sono. È curioso che a dire questo sia un giornale e non un tribunale, no? Per tutte le procure d’Europa noi siamo a posto ma per molti giornali no». 
Però questa campagna ora si ritorce contro l’Unione stessa, perché a cavalcare questo discredito adesso sono le forze populiste e sovraniste anti Ue.
«Certo. È stato un errore clamoroso. Quella campagna ha regalato benzina alle forze che l’Europa vogliono incendiarla. Dal discredito si è passati all’intossicazione della verità, da cui sono nate tutte le fake news su Soros e sul piano per islamizzare l’Europa, allo scopo, non raggiunto, peraltro, di dissuadere i nostri finanziatori». 
E perché l’Ue, a questo punto, non cambia strategia? Perché non vi riconosce per quello che siete, e cioè una risorsa umanitaria?
«Perché ha ritenuto di affrontare il problema in un altro modo, ugualmente disastroso: finanziando i paesi di partenza affinché blocchino le migrazioni verso l’Europa. Ma anche questo le si sta ritorcendo contro, perché anche questa è benzina per l’estrema destra. Pagano Erdogan, milioni di euro, pagano la Libia, e i trafficanti siamo noi».
Parliamo dei vostri finanziamenti. Da dove arrivano?
«90%, più o meno, sono donazioni private. 10% sono contributi pubblici».
Prima ha menzionato Soros. È tra i vostri finanziatori?
«No. Gli ho chiesto un contributo ma non ce l’ha dato». 
Ci sono grandi compagnie di navigazione mercantile?
«Nessuna. Anche qui, ho chiesto ad alcune linee marittime, ma non hanno mai dato nulla». 
E chi sono, questi donatori privati?
«Crowdfunding. Guardi (mostra un estratto del bilancio). Nel 2017 abbiamo avuto 43.333 donazioni, per un ammontare complessivo di 3.137.767 €. Una media di 72 € a donazione. I contributi pubblici sono 19, per un totale di circa 342.000 €, cioè una media di 18.000».
Tra i privati ci sono donatori particolarmente munifici?
«Sì. Gli sportivi. Pep Guardiola è quello che ci sostiene maggiormente. Altri calciatori del Manchester City. Xavi. Marc Gasol, che e stato in missione con noi. Il Barcellona F.C.. Poi anche gente dello spettacolo. Javier Bardem, Penelope Cruz». 

Mi racconta come nasce Open Arms?
«Venivo da venticinque anni di lavoro nel soccorso marino. Sono stato per dieci anni coordinatore del soccorso marino per la Croce Rossa catalana. Nel 1999 mi sono messo in proprio, fondando Proactiva Serveis Aquatics, e ho continuato a occuparmi della sicurezza in mare. Nel settembre del 2015, durante l’esodo dalla Turchia dei profughi siriani, vidi come tutti la foto del piccolo Aylan Kurdi, il bambino curdo affogato durante un tentativo di raggiungere l’isola di Lesbo, e decisi di trasferire là la mia organizzazione, dato che qui ormai la stagione era finita e tutto il nostro equipaggiamento sarebbe rimasto inutilizzato. Scrissi a tutti, alle ambasciate, a Frontex, a Sea Watch, per offrire gratuitamente il nostro contributo. Nessuna risposta. Così andai là da solo, insieme a un amico, e là era una catastrofe umanitaria: Lesbo era a poche miglia dalla Turchia, dalla costa si vedeva morire la gente lasciata a mezza strada sui gommoni bucati, e i cadaveri arrivavano a riva. Non c’era organizzazione, non c’erano mezzi, non c’era la Croce Rossa, non c’era nulla: il giorno stesso del nostro arrivo abbiamo cominciato a salvare gente a nuoto». 
E Open Arms nasce lì?
«Sì. Dopo un po’ arrivò il coordinatore di Human Right Watch, Peter Bouckaert, e a quel punto, insieme al mio amico avevamo già organizzato i soccorsi in maniera più professionale: tecniche di salvataggio, le nostre uniformi fatte venire da qui insieme ad altri volontari, eccetera. Bouckaert pensò che fossimo della protezione civile greca, ma avevamo le uniformi con le scritte in catalano, e non capiva. Quando seppe che eravamo dei semplici volontari fu lui a dirci che dovevamo creare una Ong, con i permessi e tutto – quello che avevo proposto all’inizio senza ricevere risposta —. Lo stesso Bouckaert ci aiutò nel crowdfunding, procurandoci le prime donazioni dagli Stati Uniti. Il nome lo trovò il Difensore civico di qui (una carica pubblica spagnola che difende i diritti e le libertà dei cittadini, ndr), che è un amico». 
In Italia ora la situazione è molto grave. Proprio ieri il ministro Salvini se n’è venuto fuori annunciando l’intenzione di applicare in Italia il programma australiano «Sovereign border», ma il contenuto di questo programma è tenuto segreto dal governo australiano. Lei sa per caso come funziona?
«Gli australiani lasciano affogare la gente, ecco come funziona. Non hanno nessun rispetto per i diritti umani. Il programma è far sì che ci siano più morti possibile. Più morti, meno barconi in mare. Questo è il sistema australiano, ma anche il sistema di Frontex, o quello dell’accordo Italia-Libia». 
Cosa intendete fare per il futuro? Continuerete a prendere il mare, nonostante l’ostilità dell’opinione pubblica?
«Noi continueremo, è chiaro. Riguardo all’opinione pubblica, poi, può sempre cambiare idea. Proprio dopodomani (oggi, ndr) negli Stati Uniti la rete Espn manderà in onda un estratto di 15 minuti del documentario girato da Gene Wojciechowski durante la missione 47, quella con Marc Gasol, in cui abbiamo trovato i due morti e salvato Josefa, riguardo alla quale sono state dette tante menzogne. Il documentario intero andrà in onda in ottobre, ma già domenica si potrà vedere come sono andate le cose. Wojciechowski era a bordo, ha documentato tutto – ed è americano, non ha nulla a che fare con la politica nel Mediterraneo: voglio vedere chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il suo lavoro. Quanto al futuro io un sogno ce l’ho: creare un osservatorio mondiale sulle migrazioni, per denunciare tutti i “sistemi australiani” che si applicano nel mondo, anche quelli di cui ora non si sa nulla. Perché nei prossimi vent’anni milioni di persone si muoveranno dai loro paesi d’origine a causa dei cambiamenti climatici, e lo faranno via mare, non via terra, dato che le frontiere terrestri sono già tutte militarizzate. Ci sono organizzazioni che difendono il mare dalla plastica, ma una vera organizzazione che difenda i diritti umani nel mare non c’è. E nel nostro pianeta c’è molto più mare che terra.