La Stampa, 26 agosto 2018
La riscossa talebana
Il terrorismo jihadista ha ritrovato in Afghanistan la propria culla ed ora punta a tornarne in possesso. È stata la cruenta battaglia di Ghazni a dimostrare, durante questo mese di agosto, che in Afghanistan i taleban sono di nuovo temibili, obbligando Washington e gli alleati – Italia inclusa – a rivedere i piani di progressivo disimpegno dal maggior teatro di guerra al terrorismo Islamico degli ultimi 17 anni.
Ghazni è una città di oltre 250 mila abitanti, 160 km a Sud della capitale Kabul, ed è stata presa d’assalto da oltre mille mujaheddin: l’attacco, ben organizzato e realizzato, ha portato alla cattura di interi quartieri che per cinque giorni hanno resistito all’assalto delle truppe governative. Solo l’impiego prolungato dell’aviazione Usa e l’invio sul terreno delle truppe speciali americane ha consentito di espugnarli, lasciando sul campo almeno 150 soldati afghani e 250 civili. È stata una battaglia feroce, casa per casa, che sommata ai blitz dei taleban contro basi afghane a Camp Chinaya e Baghlan ha sorpreso il Pentagono e la Nato per capacità operativa e coordinamento. Se a questo aggiungiamo che ad oggi, secondo stime alleate, i taleban controllano almeno il 30 per cento del territorio nazionale è facile arrivare alla conclusione che gli eredi del Mullah Omar vantano una forza militare senza precedenti dall’ottobre 2001, quando il loro regime sanguinario ed oscurantista venne abbattuto dall’intervento militare Usa – sostenuto dalla Nato – in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre contro New York e Washington che Al Qaeda aveva pianificato proprio dai campi di addestramento in Afghanistan. «Riuscendo ad aumentare il controllo delle zone rurali – prevede Seth Jones, ex consigliere Usa a Kabul oggi al centro studi Csis di Washington – porranno presto minacce dirette ai centri urbani».
Ma non ci sono solo i taleban perché lo «Stato islamico a Khorasan», ovvero la versione afghana dello Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, ha messo a segno sempre in agosto efferati attentati a Kabul e Jalalabad, dimostrandosi la ramificazione più temibile di ciò che resta di Isis. Insomma, l’Afghanistan sta tornando alla ribalta come maggior teatro d’azione dei terroristi islamici: con una competizione de facto fra taleban e Isis per rovesciare il governo di Kabul, tornando così a disporre di una propria base territoriale da dove perseguire i rivali progetti di Califfato.
I motivi della rinascita jihadista in Afghanistan sono cinque. Primo: la decisione del presidente Ashraf Ghani di puntare sui cessate-il-fuoco per trovare un modus vivendi con i taleban ha finito per rafforzarli. Secondo: la scelta della Casa Bianca di tentare la strada di negoziati segreti in Qatar con i taleban non ha prodotto risultati tangibili. Terzo: i militari afghani, d’intesa con la Nato, hanno dato la preferenza al controllo dei grandi centri lasciando de facto ai taleban mano libera nelle zone rurali. Quarto: l’Iran ha ripreso a sostenere i taleban per mettere in difficoltà l’amministrazione Trump. Quinto: il Pakistan continua ad essere una formidabile retrovia per le fazioni jihadiste sunnite.
Come se non bastasse, Vladimir Putin vuole sfruttare a proprio vantaggio tale situazione ed ha invitato a Mosca, in settembre, non solo governo afghano e taleban ma anche i rappresentanti di Cina, Pakistan, India, Iran e Stati Uniti nel tentativo di arrivare ad una composizione del conflitto ridimensionando il ruolo americano. Kabul e Washington hanno declinato ma il mini-summit afghano si svolgerà comunque all’ombra del Cremlino, consentendo alla Russia di riaffacciarsi per la prima volta sul Paese conteso dopo la rovinosa invasione terminata nel febbraio 1989.
Sono tali e tante le ragioni che spiegano perché i contingenti militari di Usa e Nato, ridotti rispettivamente a 15 mila e 16 mila effettivi senza compiti di combattimento attivo, sono oggetto di un ripensamento da parte degli alleati che va nella direzione di un rafforzamento e non di un ulteriore indebolimento. Questo spiega perché l’amministrazione Trump sta chiedendo con forza agli alleati di mantenere gli attuali reparti in Afghanistan e perché la Gran Bretagna si è detta disposta a raddoppiare i suoi 650 uomini. Da qui i riflettori sul ruolo dell’Italia, seconda forza numerica della Nato dopo gli Usa con quasi 900 uomini nella regione di Herat, perché appare destinata ad assumere una crescente importanza per il mantenimento della stabilità. Obbligando il nuovo governo gialloverde a confrontarsi con l’emergenza del ritorno jihadista nel Paese dove Osama Bin Laden e Ayman al-Zawahiri nel 1998 siglarono l’intesa che portò alla nascita di Al Qaeda. A conferma che la campagna contro il terrorismo di matrice islamica è una lunga guerra.