Corriere della Sera, 25 agosto 2018
L’editore insabbia-scoop che ora spaventa Trump
Zelo servile. Non usava giri di parole il New Yorker descrivendo, un anno fa, il rapporto del National Enquirer e del suo proprietario David Pecker con il presidente Donald Trump. Pecker è il ceo di American Media, Inc., che possiede gran parte dei tabloid «da supermercato» (così detti perché si acquistano di impulso alla cassa), dallo Star al Globe, dall’Examiner a OK!, fino appunto all’Enquirer. Frequentatore assiduo della villa di Mar-a-Lago, con Trump ha da oltre due decenni un rapporto strettissimo, o almeno l’aveva fino a poco tempo fa.
Pecker ha infatti raggiunto un accordo per l’immunità aggiungendosi al gruppetto di ex collaboratori – Michael Flynn, Michael Cohen, Omarosa Manigault, e l’ultimo, ieri, il direttore finanziario della Trump organization Allen Weisselberg – che in un modo o nell’altro hanno voltato le spalle al presidente. Se la confessione di Cohen sui pagamenti, avvenuti sotto la direzione dello stesso Trump, alla pornostar Stormy Daniels e all’ex modella Karen McDouglas per evitare che parlassero delle loro presunte relazioni con il tycoon, hanno fatto tremare la Casa Bianca, chissà cosa può venir fuori dai cassetti di Pecker. Non solo l’editore è coinvolto in entrambi gli accordi, avvenuti in violazione delle leggi sui finanziamenti elettorali, ma potrebbe nascondere molto altro materiale dannoso per Trump. Ad aprile per esempio era emerso un pagamento fatto dal National Enquirer a un usciere della Trump tower perché non riferisse la voce secondo cui il presidente avrebbe avuto un figlio da una domestica alla fine degli anni 80.
«Catch and kill», acchiappa e uccidi, viene chiamata la pratica di acquistare una rivelazione scottante su un politico o una celebrity per toglierla dal mercato. Secondo l’Ap con storie di questo tipo sarebbe stata riempita una intera cassaforte negli uffici di Pecker. Cosa aveva da guadagnarci? Favori, benevolenza: «Ho fatto questo per te, tu fai questo per me». Nel caso di Trump pare che la strategia sbocciasse anche da una genuina ammirazione e, secondo lo stesso Pecker, da un calcolo commerciale: il pubblico dei tabloid ama «The Donald», soprattutto dai tempi di The Apprentice. Tanto che già dal 2010 le testate del gruppo cominciano a premere per una sua discesa in campo e a fare da megafono alla falsa teoria trumpiana secondo cui il presidente Obama non era nato in America.
Quando poi il tycoon rompe gli indugi l’Enquirer, di solito avido di scandalacci – loro lo scoop sulla paternità negata dell’allora candidato alla presidenza John Edwards – decide invece di silenziarli e di unirsi alla «battaglia». Arriva così il primo endorsement mai fatto dalla rivista nella corsa per la Casa Bianca e alcuni pezzi di dubbio gusto e fondamento sui suoi avversari repubblicani, come quello secondo cui il papà di Ted Cruz sarebbe stato coinvolto nell’assassinio di JFK. Per non parlare della ferocia riservata a Hillary Clinton, sbattuta in copertina con aria abbattuta e pesanti borse sotto gli occhi e il titolo: «Sei mesi di vita».
Ma dopo le prime rivelazioni sui pagamenti alle modelle Pecker fa togliere i documenti dalla cassaforte. L’editore teme che i procuratori possano accusare anche la casa editrice di aver violato la legge spendendo soldi per rimuovere ostacoli sulla strada di Trump. E per la stessa ragione avrebbe deciso ora di collaborare. Le dimensioni di quello che potrebbe venire fuori dalla sua testimonianza sono difficili da immaginare. Intanto, il contenuto della cassaforte è stato distrutto o solo spostato? Cosa c’era dentro? E se oltre alle storie sepolte su Trump ci fosse stato anche materiale con cui ricattare gli avversari e magari ammorbidire la resistenza dei repubblicani più tradizionali? Niente è ormai impensabile in questa storia di sesso, bugie (politica?) e giornalacci.