Il Messaggero, 25 agosto 2018
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Biografia di Enrico Fermi
Alle 14,20 del 2 Dicembre 1942, sotto una gradinata dello stadio universitario di Chicago, lo scienziato sconfessò il filosofo. Democrito e Leucippo avevano ritenuto la particella fondamentale della natura un qualcosa di indivisibile. L’avevano chiamata atomo, dal verbo a-temnein: ciò che non si può tagliare. Enrico Fermi più di duemila anni dopo, non solo lo scompose, ma ne trasse un’ enorme quantità di energia. Era nata l’era atomica, che nel bene e nel male avrebbe condizionato l’avvenire dell’umanità.
Fermi era nato a Roma il 29 Settembre 1901. Fu un genio precoce. Associava una mente analitica a una memoria prodigiosa, alimentata da un progressivo accumulo di nozioni scientifiche che ordinava in schemi razionali. Da ragazzo, acquistò un trattato in latino del gesuita Andrea Caraffa, comprendente argomenti di matematica, astronomia fisica e ottica.
Poi fu un diluvio di studi e di pubblicazioni sulle equazioni differenziali, la fisica e la meccanica quantistica. A 21 era laureato con lode, a 24 docente universitario, a 25 titolare della prima cattedra di fisica teorica in Italia. Qui, in via Panisperna, radunò un gruppo di ragazzi che sarebbero diventati famosi: Amaldi, Rasetti, Segré. Fu protetto e incoraggiato da Guglielmo Marconi, e con lui divise una prudente adesione al partito fascista. Fu nominato accademico d’Italia, e per un decennio condusse la ricerca senza interferenze politiche: per fortuna sua, e dell’umanità, Mussolini non comprese la portata delle sue scoperte.
L’EMIGRANTENel 1938 gli fu assegnato il premio Nobel per la fisica: si recò a Stoccolma, e da lì emigrò direttamente negli Stati Uniti. Le famigerate e stupide leggi razziali lo costringevano a portare in salvo la moglie Laura, di religione israelita.
In America fu accolto come meritava. La Columbia University lo ingaggiò, e Fermi potè proseguire, con ben altre disponibilità logistiche e finanziarie, le sue ricerche.
Nel frattempo l’Europa ribolliva, e la sciagurata dittatura hitleriana preparava la guerra. Fermi fu impressionato dall’esperimento dei tedeschi Hahn e Strassmann che avevano dimostrato la possibilità della fissione nucleare, e, come molti esuli, fu terrorizzato dall’idea che i nazisti costruissero una bomba atomica. Ripetè l’esperimento di Hahn e si propose di portarlo alle logiche conseguenze. Così, il 2 Dicembre del 42, servendosi della prima gigantesca pila atomica costruita sotto la sua direzione, verificò la teoria di Einstein (e di san Giovanni) che la materia è l’altra faccia dell’ energia: frantumò l’uranio, e ne uscirono dei neutroni che colpirono altri atomi in una catena controllata. Fermi chiuse la macchina e aprì un fiaschetto di Chianti.
L’esperimento non accelerò soltanto i neutroni coinvolti. Diede fortissimo impulso al progetto Manhattan deciso da Roosevelt su suggerimento di Einstein. Il padre della relatività aveva temporaneamente sconfessato il suo pacifismo, e Roosevelt, dopo varie esitazioni, aveva risposto creando il gigantesco complesso di Los Alamos.
Qui Fermi fu incaricato della direzione scientifica, sotto il controllo tecnico di Julius R. Oppenheimer e quello organizzativo del generale Leslie Groves. Quando la bomba esplose il 16 Luglio del 45 nel deserto di Alamogordo, tutti si congratularono con Fermi che, rispose: «Ha l’effetto di circa diecimila tonnellate di tritolo; più o meno quello che avevo calcolato».
I PREGIUDIZIEra un scienziato, e non aveva pregiudizi filosofici o sentimentali. Non ne ebbe nemmeno quando si decise dell’impiego della bomba. Un comitato di saggi propose un lancio dimostrativo. Fermi, Oppenheimer e Teller sostennero che sarebbe stato uno spreco inutile e sostennero la necessità di sganciarla in una base militare, anche se circondata da abitazioni. Truman si disse d’ accordo, e polverizzò Hiroshima.
Fermi non fu, come molti sostennero, il padre della bomba atomica. Un ordigno così complesso e costoso non si sarebbe mai costruito senza la sapiente presenza di Oppenheimer e la straordinaria organizzazione del generale Groves. Per di più nessun scienziato è un creatore esclusivo, ed è sempre debitore verso chi lo ha preceduto nella tortuosa via della ricerca e della sperimentazione.
L’EQUAZIONEFermi doveva a Einstein l’equazione tra materia ed energia, a Rutheford la disintegrazione dell’atomo,a Born e a Heisenberg gli studi sulla meccanica quantistica, e a tanti altri le particelle di sapere che lui avrebbe fuso nella sua mente ordinata, così come avrebbe scisso quelle di uranio nella pila di Chicago. Ma se non ne fu il padre, ne fu certamente il padrino, perché tenne a battesimo l’esperimento che, provando la fattibilità della reazione a catena, consentì lo sviluppo della tecnologia che si sarebbe concluso con l’assemblaggio della bomba e l’esplosione di Alamogordo.
CREATURADa padrino coerente non sconfessò la sua creatura. Sapeva che a uccidere è la volontà dell’uomo, e non lo strumento di cui dispone nel suo arsenale. E probabilmente gli erano arrivate voci che nella civilissima Germania lo Zyklon B, un utile insetticida inventato da un ebreo per la disinfestazione, era diventato strumento per il più spaventoso genocidio mai realizzato nella storia.
Se patrocinò l’impiego della bomba, pur prevedendo alte perdite umane, non fu per insensibilità o rancore vendicativo, ma in base alla valutazione razionale delle vite risparmiate con la rapida fine del conflitto. I fatti gli diedero ragione, perché nemmeno dopo i centomila morti di Hiroshima il Giappone si arrese.
Fu necessaria la replica di Nagasaki per evitare, agli Stati Uniti e allo stesso Giappone, alcuni milioni di morti. Come Edward Teller, che di lì a poco avrebbe costruito la bomba all’idrogeno, Fermi sperava che una simile arma avrebbe dissuaso questa insensata umanità a trascinare il mondo in un nuovo conflitto globale che ne avrebbe provocato la scomparsa definitiva. Confidava che l’energia nucleare, impiegata in modo pacifico, avrebbe curato molte malattie, e il cancro in particolare.
In questo fu meno lungimirante, e anche meno fortunato. Nel 1954 il suo stomaco fu aggredito da un tumore, contro il quale le radiazioni stavano suscitando speranze rivelatesi poi in gran parte infondate. Quelle cellule metastatiche furono più resistenti delle masse di uranio e di plutonio che, con tanta genialità, era riuscito a scomporre e a dissolvere. Non ne fece un dramma cosmico. Le sue parole, davanti alla diagnosi infausta, furono quelle di uno stoico docile alle leggi della natura: «Speriamo che finisca presto».