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 2018  agosto 25 Sabato calendario

Cortina, il mondo rovesciato della famiglia Benetton

CORTINA D’AMPEZZO Qui davanti alla meraviglia solenne delle Dolomiti, con le Tofane ombreggiate dalle nubi e sul finire delle vacanze di ricchi molto invidiati, si potrebbe immaginare che la famiglia Benetton trovasse riparo e persino ristoro, dall’onda rancorosa dopo il disastro di Genova, e l’immediato crucifige sui social. Ed è invece piuttosto sorprendente scoprire che l’onda è arrivata fin qui, nel potenziale paradiso dove hanno casa da decenni, e che il rancore nuovo si aggiunge a malumori antichi. Del resto, questa è la moda corrente in Italia, lo spirito dei tempi avvelenati che cerca il castigo pubblico, anche in un posto di vacanze splendente come è Cortina. Così, i Benetton esperti di moda pagano la fama, la gloria di imprenditori del primo Made in Italy, e per di più i successi internazionali, quel negozio aperto da spavaldi a New York sulla Madison, nel 1980, e le campagne etiche, e di sinistra, impegnate su integrazione, gay, guerre, Aids, politica, immigrazione e molto altro ancora. Il bersaglio ideale, vien da dire, e non sono i soli.Ieri il bersaglio è stato Giuliana Benetton, inseguita da occhiate e sfottò a bassa voce lungo il corso Italia, ma lei è passata avanti indifferente, le mani dietro la schiena e una borsina a tracolla, la treccia nerissima – quella che piacque tanto a Andy Warhol, le fece il ritratto nel 1986 – che ondeggia sulla giacca blu intessuta di lamè. Una donna di 81 anni che guarda le vetrine, ma questo non la salva dalle male parole. E verso l’ora dell’aperitivo, quando i turisti si siedono nei bar e si materializza una Ferrari nera inutilmente rombante, nella solita Cortina vip e pettegola i clienti del Café Royal – per lo più romani e ciociari – commentano ancora i fatti di Genova con disprezzo, «manco so’ andati ai funerali, manco hanno avuto il coraggio di prendersi li fischi».
Non sono amati, i Benetton, forse non lo sono mai stati, in Veneto. In più, la famiglia sta simpatica a pochi ampezzani, qui hanno belle dimore e terreni di pregio, ma questo non li aiuta, quindi la faccenda del ponte Morandi ha generato addirittura scandalo e sdegno come un nuovo Vajont, «sono una tribù di figli e qualcuno potevano mandare.
Non l’hanno fatto». Il governatore Zaia ha poi dato la linea: «Credo che nelle prime ore dopo il disastro la situazione sia stata gestita male dalla famiglia Benetton», peraltro già maghi del marketing, quelli del prete che bacia la suora, dei ragazzi bianchi neri e gialli sempre abbracciati, United colors of. Da assenti, a Genova hanno fatto un passo falso che forse non sanno ancora come rimediare. Nati poveri, poi miliardari, ora accusati del peccato di ignavia, con l’aggravante di una grigliata il 14 sera, mentre a Genova si scavava per tirare fuori i morti, in un ristorante – il Toulà, o il Villa Oretta, o il Tivoli – dove si celebrava il compleanno del cognato di Gilberto Benetton, con discoteca e musica che rimbalzava sulla montagna, lamentano gli ampezzani. E a Ferragosto, pranzo di famiglia qui nella frazione Coiana, sul prato davanti alla casa di Giuliana, dove si commemorava la scomparsa di due loro morti recenti, Carlo Benetton, 77 anni, e Fioravante Bertagnin, marito di Giuliana.
E gli altri morti? Un primo comunicato gelido e tardivo, firmato da Edizione, la holding della famiglia, con il “cordoglio alle famiglie delle vittime, la vicinanza ai feriti” eccetera, poche righe. Un secondo, il sabato dei funerali di Stato, più tiepidamente vicino “a ogni persona che abbia conosciuto e amato coloro che oggi non ci sono più”. Ma nessuno, della dinastia dei golf colorati e poi delle autostrade – o Dynasty, dati i cattivi rapporti all’interno della tribù – ha avuto l’impulso di scendere a Genova. Non la prima generazione, Gilberto, Luciano, Giuliana. Non la seconda, almeno quelli che sono entrati nel business, come Alessandro figlio di Luciano, o Sabrina figlia di Gilberto, o Franca Bertagnin figlia di Giuliana, né Christian figlio di Carlo. Perciò se anche qualcuno ricorda che «in fondo sono azionisti di minoranza relativa, in Autostrade» e quindi non sono i padroni, ma di certo i più conosciuti e addirittura celebri, la stirpe industriale e pop fondata nel 1965 a Ponzano Veneto esce mesta da “un evento che ci ha colti di sorpresa”.
Stupisce comunque quel disprezzo antico – quasi astio – che fa dire a molti che i Benetton non sono veri signori, forse perché nati nella Marca un tempo povera, in pianura e non qui, nell’aristocrazia delle montagne, dove anche una siepe (piantata dai giardinieri di Giuliana) ha fatto arrabbiare molti locali, tanto che qualcuno vuole protestare in Comune, «rovina la prospettiva dei prati, ma loro si comportano come paròn, non la toglieranno mai». Ai paròn non si perdona niente, in un posto dove molti clienti pagano in contanti gli alberghi e le cene, e nessuno dice beh. L’attico di Carlo Benetton, «pagato 5 milioni di euro, ovvero 33mila al metro quadro», ricorda un commerciante con negozio sul corso. La villa di Alessandro, intatta nei legni e nelle finestre, ma dentro tutta rifatta. Un divano rosa confetto nella casa di Teresa, ex moglie di Luciano, molto criticato. La siepe di Giuliana. Lo yacht di Gilberto, attualmente ormeggiato a Viareggio, si chiama My Nanook e batte bandiera inglese, e anche questo non va bene. Troppi troppi soldi, e troppe invidie, a cascata. E anche la leggenda dei due maglieristi geniali, come prima di loro solo i Missoni: oggi sembra dispiacere che qualcuno all’epoca abbia avuto l’idea di un maglione giallo – il primo, confezionato da Giuliana per Luciano – che ha cambiato il modo di vestire di una generazione, quando i pullover erano solo blu, o grigi, e poi delle altre. Perciò tocca scendere in basso, verso Treviso, nel quadrilatero che comprende i punti cardinali della famiglia.
Villa Minelli, sede della Fondazione Benetton, bianca e splendente, con una sede operativa sotterranea creata da Tadao Ando, c’era un progetto per una riqualificazione del parco e della viabilità, con pista ciclabile annessa, è finita in una zuffa di paese e alla fine Luciano ha lasciato perdere: “Ritiriamo l’offerta”. E la fabbrica, a Castrette di Villorba, firmata da Tobia Scarpa, con guglie e tiranti che ricordano il ponte di Brooklyn, e per suggestione anche il Morandi. Poco lontano, l’altra villa già dei Pastega Manera, restaurata nei Novanta da Ando e trasformata nella sede di Fabrica, dove si faceva Colors e c’era Oliviero Toscani, e dove oggi sembra tutto sbarrato, forse stanno studiano come rimediare “all’ingenuità”, dice un trevigiano che invece li ama, di non essere corsi subito a Genova, di non averci messo la faccia, come nella foto famosa che vede i quattro fratelli in camicia bianca e sorridenti, ai bei tempi.
Infine, bisogna entrare a Treviso, e fermarsi davanti alle Gallerie delle prigioni, l’ultimo dei punti cardinali di famiglia, proprio davanti al duomo, e ultimo grande restauro, una ex galera asburgica che custodisce la collezione di arte contemporanea, ma anche lì, a volte il proprio paese risponde meno bene che New York, tanto per dire. Anni fa, quando Luciano ritirò la sponsorizzazione alla squadra di rugby, spiegò «ma qui sembra che non gliene freghi niente», di sport e di arte. E però, a Leonardo Del Vecchio che gli diceva «ma perché non ti trasferisci a Milano, Milano è la piazza giusta, fai come me», lui rispose ma no, «a me piace scendere dall’ufficio e camminare per Calmaggiore, a me piace così».