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 2018  agosto 25 Sabato calendario

Sabino Cassese: «Privatizzare è stata la scelta giusta ma è mancato il controllo dello Stato»


Era ministro della Funzione Pubblica nel 1993 quando il premier Carlo Azeglio Ciampi avviò il piano delle privatizzazioni italiane. Qualche anno prima aveva presieduto la Commissione d’indagine sul patrimonio immobiliare pubblico e poi la Commissione per la riforma delle Partecipazioni statali. Arriva da lì dunque la passione con la quale il giurista Sabino Cassese (giudice costituzionale nel 2005) parla di “Stato padrone”. E rivendica senza se e senza ma quelle stagioni, tornate oggi al centro del dibattito politico dopo la tragedia di Genova. Proprio del consiglio di amministrazione di Autostrade ha fatto parte dal 2000 al 2005 e sull’ipotesi di una revisione delle concessioni è tranchant: «Sarebbe una decisione immotivata e anche illegale. Perché rimetterci le mani? Per riscattarle? E poi gestirle con quali mezzi e con quale organizzazione? Quanto costerebbe?».
Ciampi nell’aprire la strada delle privatizzazioni disse che si trattava di “trasferire in proprietà dei singoli cittadini un bene o un servizio pubblico”, contribuendo così alla “creazione di un mercato più largo e vitale e di una democrazia economica più solida e libera da abusi politici”.
Non crede che gli obiettivi siano rimasti sulla carta?
«Ripercorriamo uno per un uno quegli obiettivi. Primo: evitare altre perdite che avrebbero costretto lo Stato a indebitarsi o a chiudere l’Iri per fallimento coinvolgendo così la stessa credibilità del debito pubblico. Questo obiettivo è stato raggiunto. È stato raggiunto anche il secondo: assicurare altre entrate per lo Stato proprio per colmare il suo debito, traendo risorse dagli asset che valevano qualcosa. Terzo: mettere la dovuta distanza tra governo e imprese per evitare clientelismo e carrozzoni.
Raggiunto anche questo obiettivo.
Quarto: assicurare una gestione migliore, mettendo le imprese nelle mani di imprenditori privati.
Questo obiettivo è stato raggiunto in molti casi. In altri ha trovato difficoltà. Ma non bisogna dimenticare quello che scrisse a un certo punto Mario Draghi: il percorso delle privatizzazioni è per metà nelle mani dello Stato e per metà nelle mani dei privati. Le ipotesi di gestione mediocre dipendono dalla debolezza di alcuni imprenditori privati e in parte dalla storica debolezza del capitalismo italiano».
La scelta prevalente è stata quella di cedere le aziende di Stato a “noccioli duri” di azionisti privati piuttosto che trasformarle in vere public company. Così le privatizzazioni in moltissimi casi si sono risolte in un trasferimento di rendita dal pubblico al privato.Lo“Stato padrone” girava quei dividendi ai consumatori e alla fiscalità generale mentre l’imprenditoria privata li incassa soltanto...
«Non è possibile un esame unitario.
Bisogna distinguere imprese indebitate e imprese in condizioni floride. Serve, poi, quelle in regime di concorrenza e quelle di servizio pubblico, le public utilities. Infine, bisogna distinguere imprese con regime di prezzi e imprese con tariffe, cioè imprese operanti in settori nei quali l’amministrazione non controllava i prezzi e imprese di settori nei quali le tariffe erano fissate dall’autorità pubblica».
In questo senso è stata giusta la scelta di liberalizzare privatizzando?
«Era necessario fare così per due motivi. Innanzitutto per non trasferire ai privati privilegi passando così dal monopolio pubblico al monopolio privato.
Inoltre per rispondere ai criteri che avevamo fissato con i partner europei, criteri secondo i quali i settori di pubblica utilità andavano aperti alla concorrenza. Pensi soltanto alla telefonia: oggi traiamo un grande beneficio dalla liberalizzazione di questo settore».
Ma non crede che vicende come la tragedia di Genova rivelino le inadeguatezze dello Stato come regolatore?
«C’è un abisso tra oggi e ieri. Le autorità amministrative indipendenti sono un modello di buona amministrazione. Le decisioni sono prese dopo analisi molto attente e dopo ampie discussioni con gli interessati.
Sarebbe bene che le leggessero coloro che si riempiono la bocca con la democrazia diretta. Sono ben motivate e frutto di attente ponderazioni. Talvolta mi trovo in disaccordo con alcune decisioni, ma non si può non riconoscere un enorme passo in avanti dello Stato regolatore, grazie proprio alle autorità indipendenti istituite negli stessi anni delle privatizzazioni».
Stessi dubbi ci sono sullo Stato “controllore”.
«Se si riferisce ai ministeri, posso solo dirle che le carenze in materia di controlli, che ci sono, hanno spiegazioni molto chiare. Come vuole che funzioni un ministero se non riesce ad attirare i migliori, se le assunzioni vengono bloccate per un decennio, se le leggi da eseguire vengono cambiate continuamente e si aspira addirittura a fare leggi auto-applicative, se il personale è sottoposto allo spoils system, ed è quindi precario ? Se, infine, come accade con gli ultimi editti della Funzione pubblica, è trattato come i criminali, perché se ne prendono le impronte digitali?”
Nelle privatizzazioni gli imprenditori italiani hanno puntato agli ex-monopoli, evidentemente più “rassicuranti” rispetto ad altre sfide. Inadeguatezza finanziaria o di scarso coraggio del capitalismo di casa nostra?
«Del capitalismo italiano ho già detto. Ma i giudizi sommari che ho sentito in questi giorni sono frutto di improvvisazione. Secondo valutazioni comparative, ad esempio, nelle autostrade è stato investito dai privati in Italia più che in altri Paesi».
Come valuta i “venti” di nazionalizzazione che scuotono il dibattito politico? Quanto c’è, secondo lei,di consapevole riflessione e quanto di populismo?
«Il desiderio di criticare il passato recente ci fa dimenticare quello remoto. Prima delle privatizzazioni le imprese pubbliche si erano andate appesantendo. Per rendersene conto controlli soltanto i dipendenti dell’Iri degli anni d’oro e quelli degli anni finali. Lo stesso potrebbe dirsi confrontando l’Eni di Mattei e quello degli ultimi anni».
Non crede che lo Stato nell’economia rappresenti in Italia un forte rischio di malaffare? Il nostro Paese è costantemente nei piani alti delle classifiche internazionali sulla corruzione.
«La leggenda dell’Italia Paese corrotto si fonda sulla rilevazione di percezioni. Legga piuttosto le rilevazioni dell’Istat sulla corruzione misurata».