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 2018  agosto 25 Sabato calendario

Craxi-Proudhon, quel colpo di cannone nello psicodramma della sinistra italiana

In nessun Paese dell’Occidente la suggestione del comunismo fu così duratura ed estesa come in Italia: nel secondo dopoguerra la condivisero dirigenti di partito, elettori, fior di intellettuali, fiumi di ragazzi in corteo, sino a quando quella rendita di posizione fu improvvisamente attaccata. Era il 27 agosto del 1978 e la pubblicazione sull’Espresso del saggio «Il vangelo socialista», firmato da Bettino Craxi, si sarebbe trasformato, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in «un colpo di fucile, o piuttosto di cannone» nella vicenda politico-culturale della sinistra italiana, fino ad allora rintanata nelle sue dottrine e nel culto dei suoi profeti. 
Il segretario socialista, leader divisivo per sua scelta, in quella occasione prese di mira il bastione più resistente del comunismo interno e internazionale, il mito di Lenin. Divampò la polemica, che durò mesi: il Pci e i suoi intellettuali provarono a delegittimare il saggio, prendendo di mira uno dei pensatori citati nel testo, Pierre-Joseph Proudhon, socialista utopista e come tale liquidato come sognatore.
Berlinguer: nessuna abiura
Enrico Berlinguer alla festa dell’Unità disse che il Pci non avrebbe mai fatto «abiura di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre». Ma il colpo era andato a segno: 48 ore dopo la pubblicazione del saggio, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma aveva trasmesso riservatamente un lungo rapporto al Dipartimento di Stato, sottolineandone il carattere strategico, e qualche anno più tardi un intellettuale comunista come Biagio De Giovanni ammise che in quel passaggio «il Pci aveva subito una sconfitta culturale e teorica». E d’altra parte sarebbe stata la storia a dimostrare quanto anacronistica fosse la trincea del Pci: soltanto 11 anni dopo i regimi dell’Est comunista sarebbero caduti uno dopo l’altro, nel giro di poche settimane. 
L’articolo di Craxi sarebbe passato alla storia come il saggio su Proudhon, anche se lo storico Giovanni Scirocco, autore di un recente libro sul tema (Il vangelo socialista, ed. Aragno) dimostra come si sia trattato di una definizione «impropria», figlia della polemica di quei mesi. Proudhon era un contemporaneo (assai critico) di Marx e invece nel saggio si puntava sul leninismo, messo sotto accusa per le sue «mire palingenetiche» e per la sua natura di «religione travestita da scienza», mentre il socialismo riconosce che «il diritto più prezioso dell’uomo è il diritto all’errore». 
Il testo, firmato da Craxi, era stato preparato da Luciano Pellicani, uno dei tanti uomini di cultura che in quella fase si muovevano attorno al nuovo corso socialista: negli anni tra il 1976 e il 1979 tra intellettuali e Psi si sviluppò un rapporto originale e non subalterno, secondo modalità mai viste prima e mai più replicate. Sia pure con modalità diverse, contribuirono all’elaborazione socialista personalità come Norberto Bobbio, Massimo Salvadori, Paolo Sylos Labini, Valerio Castronovo, Giuliano Amato, Stefano Rodotà, Roberto Guiducci, Gino Giugni e tanti altri. 
Apertura alla modernità
Intellettuali strutturati, che si posero davanti al nuovo corso socialista con la postura descritta da Norberto Bobbio: gli uomini di cultura possono impegnarsi nella politica «mantenendo un distacco critico», partecipando cioè alle battaglie, ma con quella distanza «che gli impedisca di identificarsi completamente con una parte».L’offensiva socialista non si limitò al totem-Lenin. Contribuirono a modernizzare la sinistra (non solo italiana), il Progetto per il 41° Congresso Psi di Torino del 1978, la Biennale del dissenso nei Paesi dell’Est del 1977, il convegno internazionale su «Marxismo, leninismo, socialismo», l’azione della rivista Mondoperaio diretta da Federico Coen.
Dal punto di vista culturale gli effetti di lunga durata di quella stagione li ha spiegati 20 anni più tardi Giampiero Mughini: «La furia barbarica di Craxi, socialista anticomunista, diede diritto di cittadinanza a parole e giudizi che erano inconsueti a sinistra». Ci furono effetti anche politici (una sinistra più aperta alla modernità e meno orientata al consociativismo), che però furono presto divorati dalla questione morale, con la quale l’autonomismo socialista perse l’anima. Ma con un paradosso in più. Lo ha scritto Luciano Cafagna nel suo saggio La strana disfatta: Craxi, dopo l’iniziale idillio, divenne ostile all’intellighenzia e a quegli intermediari di opinione (magistratura, burocrazia, insegnamento, mass media), che gliela fecero pagar cara. E dall’altra ridusse l’autonomismo – e il socialismo stesso – a semplice anticomunismo, una parola che col crollo del muro di Berlino era stata «portata via in un giorno» e «dove era rimasta solo quella, almeno a sinistra, per forza di cose doveva portarsi via tutto». Così fu: nel giro di cinque anni i due partiti storici della sinistra italiana, Psi e Pci, non esistevano più.