La Stampa, 25 agosto 2018
Trump e il voto di mid-term
Negli ultimi diciotto mesi, il mondo ha assistito a una fase della politica americana inedita, mai sperimentata in precedenza: il presidente Donald Trump, con il suo nazionalismo economico neopopopulista di destra, il suo disprezzo per la diplomazia e la tradizione, rimane un mistero per il resto del mondo e anche per molti di noi qui negli Stati Uniti. Ma oggi, i dati indicano che gli americani stanno svelando questo enigma, arrivando a una conclusione sfavorevole: il basso indice di gradimento per l’operato di Trump è da record e indica che la sua presidenza è in difficoltà. Conserva il consenso degli elettori repubblicani dichiarati e con esso la lealtà dei repubblicani del Congresso che non lo hanno fermato nemmeno una volta, compresi i casi in cui si trattava di qualcosa su cui la maggior parte di loro non era d’accordo, ma Trump corre seriamente il rischio di perdere le elezioni di Metà mandato, che si tradurranno in un verdetto sulla sua presidenza.
In altre parole, se pensate che la politica americana sia un ginepraio, aspettate ancora una sessantina di giorni: arriverà un’ondata di cambiamento che non risolverà al momento la nostra crisi politica, ma che si svilupperà nei prossimi due anni e aiuterà a decidere in quale direzione e secondo quale ideologia si muoveranno gli Stati Uniti.
Ecco cinque considerazioni sugli imminenti sviluppi che sicuramente scuoteranno la più antica democrazia del mondo e saranno ricchi di implicazioni per l’alleanza transatlantica.
L’ondata
Innanzitutto, sta arrivando un grande cambiamento. Nella politica americana è definita «un’ondata elettorale». Ne ho parlato su questo giornale lo scorso gennaio. Le elezioni di Medio termine per il rinnovo del Congresso, che si svolgeranno il 6 novembre saranno un evento dirompente. Sono in palio tutti i 435 seggi della Camera e il partito di Trump è nei guai. Ho vissuto la prima ondata elettorale nel 1974 come consulente politico. Avevamo visto gli stessi segni all’orizzonte: i democratici che vincono o perdono di misura in distretti dove nemmeno ci saremmo sognati di competere. Così è andata da quando Trump è stato eletto. I democratici hanno vinto in Virginia e nel New Jersey, hanno vinto, per la prima volta dal 1990, un seggio al Senato nel repubblicanissimo Alabama, hanno vinto seggi al Congresso nei distretti più difficili della Pennsylvania arrivando dieci giorni fa a sfiorare la vittoria in Ohio. In America sta succedendo qualcosa. A maggio, secondo un sondaggio nazionale, i democratici avevano un vantaggio di tre punti sui repubblicani; questo mese è salito a nove punti, il più alto dal 1974. In poche parole, i democratici riconquisteranno la Camera dei Rappresentanti per la prima volta dal 2010.
Cambiamento perenne
Secondo punto, che significato ha tutto questo? Io dico di non saltare subito alle conclusioni. Il cambiamento è in realtà una costante nella politica americana da un bel po’ di tempo a questa parte. L’America ha visto altre ondate negli ultimi 38 anni: nel 1980 per il Gop; nel 1982 e nel 1986 per i democratici; nel 1994 per i repubblicani e la rivoluzione di Gingrich; nel 2006 e nel 2008 per i democratici che al Congresso hanno vinto con una maggioranza di proporzioni quasi storiche; e la rivoluzione del Tea Party nel 2010. Nei recenti cicli elettorali, le elezioni di «cambiamento» sono state la norma e non l’eccezione, e il voto ha premiato persone totalmente diverse come Obama e Trump alla Casa Bianca, o Newt Gingrich e Nancy Pelosi come portavoce. Ma quello che è chiaro è: Trump è stato eletto per cambiare Washington; il rifiuto totale del suo partito due anni dopo dimostrerà che ha perso l’aura del rivoluzionario.
In terzo luogo, quali sono le conseguenze? Per almeno due anni, l’ondata in procinto di colpire le nostre coste politiche impedirà a Trump di far passare leggi importanti basandosi esclusivamente sui voti del partito. Per Trump, ciò significa che non sarà in grado di far approvare alcuna legge, a meno che non rinunci alla sua agenda estremista. Ma non può abbandonare quell’agenda perché è il segreto del suo successo presso il suo elettorato di cui dopo novembre avrà più bisogno che mai. Quarto, la presidenza Trump sarà messa sotto pressione e giudicata come mai prima d’ora. I democratici avranno potere di comparizione, ovvero l’autorità legale per richiedere documenti e testimoni all’amministrazione. La supervisione del Congresso può essere dirompente. Aspettatevi indagini su tutto, dagli incontri di Trump con i lobbisti ai suoi rapporti d’affari alle denunce dei redditi a lungo nascoste. La domanda fastidiosa, la patata bollente che i democratici dovranno affrontare è se prendere in considerazione l’impeachment. Recentemente, i sondaggi hanno mostrato che due terzi degli elettori democratici dichiarati sostengono l’impeachment.
A meno che il procuratore speciale Robert Mueller non produca un rapporto sconvolgente, rivelando crimini commessi dal presidente, la dirigenza democratica del Congresso tenterà probabilmente di evitare l’impeachment che, se passasse all’Assemblea, andrebbe incontro a una sicura sconfitta al Senato, che dovrebbe rimanere a maggioranza repubblicana. La Camera è diventata prudente dopo la lezione dell’ultima volta in cui un presidente fu messo sotto accusa sapendo che al Senato non sarebbe stato condannato: nel 1998 e nel 1999 furono i repubblicani a incriminare il presidente Clinton e alla resa dei conti a indebolire la loro maggioranza al Congresso. Dopo novembre ci sarà anche una resa dei conti politica all’interno del Partito repubblicano. Il presidente dovrà affrontare una sfida alle primarie per il 2020? O una sconfitta esiziale della maggioranza indurrà allo scetticismo i repubblicani del Congresso e alla fine li indurrà a resistere a Trump e a chiedere che cambi linea sulle questioni in cui ha violato il vangelo repubblicano, dalla guerra commerciale con la Cina all’avvicinamento alla Russia? O Trump si salverà dalla critica repubblicana perché i repubblicani del Congresso rimasti a Washington saranno ancora più conservatori – espressione dell’ala più estrema filo-Trump – e meno propensi a rovinare la sua agenda?
Due anni di tempo
Tutte queste domande avranno bisogno di tempo per trovare risposta. Ed ecco il quinto punto, quanto tempo? Non c’è da sbagliarsi: queste elezioni creeranno uno scontro che richiederà due anni per essere risolto. Non bisogna dimenticare che nel 1994 il presidente Bill Clinton perse la Camera (per la prima volta dal 1954) e il Senato proprio in occasione delle elezioni di Metà mandato. Ma due anni dopo, lui e quello stesso Congresso furono rieletti: il Paese si aspettava che trovassero un modo per convivere e governare insieme. Nel 2010 Barack Obama ricevette dalle urne un responso totalmente negativo ma nel 2012 fu rieletto in modo altrettanto spettacolare, così come il Congresso repubblicano. Ma a differenza di Clinton prima di lui, il partito che gli si contrapponeva al Congresso rifiutò di scendere a compromessi su qualsiasi tema. Era totalmente controllato dall’estrema destra, uno scenario che presagiva l’ascesa di Trump stesso nel 2016. Il secondo mandato di Obama è stato segnato dalla paralisi del Congresso e da prove di forza – dall’accordo nucleare iraniano all’accordo sul clima di Parigi alle ordinanze amministrative sull’immigrazione e ambiente – messe in atto scavalcando il Congresso. In breve, Trump potrebbe subire una grave sconfitta nel novembre 2018 – ma probabilmente non cambierà il suo approccio alla politica estera in cui i presidenti hanno un’ampia libertà, e certamente non risolverà immediatamente la nostra lotta politica in patria. Probabilmente segnerà solo il suono della campana per il secondo round.
La tempesta in arrivo
Uno dei più noti aforismi di Mark Twain, recita: «Se non vi piace il tempo del New England, aspettate un minuto, cambierà». Bene, se non vi piace l’attuale politica di Washington aspettate fino al 6 novembre: cambierà. Ma questo cambiamento porterà ulteriore cambiamento – e ulteriori tempeste politiche.
Traduzione di Carla Reschia