il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2018
Quel che resta di David Foster Wallace
Wallace chi? A dieci anni dalla morte, la mente migliore della sua generazione – scrittore, matematico, filosofo e molto altro – rischia di essere derubricata, se non obliata, passando da venerato maestro ad amabile resto. Era il 12 settembre 2008 quando David Foster (cognome della madre) Wallace (cognome del padre) si lasciò penzolare dal soffitto di casa: fu la moglie, l’artista californiana Karen Green, a ritrovare il cadavere. Ma non fate troppi pettegolezzi, solo constatate che – in Italia, almeno – non ci saranno omaggi postumi, commemorazioni, riedizioni, riti funebri, messe in scena laiche (a parte, ad esempio, Overload di Teatro Sotterraneo), trasmissioni (a eccezione di Una cosa divertente che non farò mai più su Radio3) o convegni (escluso quello di Chieti, organizzato dal Dipartimento di Scienze Filosofiche!).
In libreria l’unica novità – non proprio nuova – è l’edizione italiana del mémoire della “vedova di professione”, la succitata Green: Il ramo spezzato, una raccolta autobiografica di poesie, disegni e pensieri sparsi, uscirà il 6 settembre per Baldini + Castoldi, cinque anni dopo la versione originale (Bough Down, Siglio Press), già cotta e mangiata dai wallaciani di mezzo mondo, che online si divertono a spoilerare le frasi più rabbiose, tipo: “C’è chi è disposto a morire piuttosto che farsi conoscere fino in fondo. Io no”.
Minimum fax, invece, manda in ristampa Un antidoto contro la solitudine (uscita ufficiale il 13 settembre), un’antologia di “Interviste e conversazioni” con critici ed editor, cronisti e colleghi, in cui il primattore, tra una recita di sé e l’altra, si lascia spiare come un Re pallido e nudo: “Non ci vuole tanto a capire che la nostra paura sia delle relazioni che della solitudine è legata alla nostra rabbia contro la morte, la consapevolezza del fatto che prima o poi morirò, e morirò in buona sostanza da solo, mentre il resto del mondo continuerà ad andare avanti allegramente senza di me”. Così è, se vi pare.
Quel che resta di Wallace è il Wallace saggista, più che il romanziere polimorfo o il pirotecnico conferenziere/divulgatore. È lui il primo ad aver ammesso: “All’inizio tutti dobbiamo necessariamente scrivere una certa quantità di puttanate, e le mie puttanate erano saggi sotto mentite spoglie”. Passata la sbornia post-morte drammatica, oggi tutti lo riconoscono quale maestro di non-fiction, non di fiction, spesso ostica, cerebrale, fluviale. Ma l’oblio avanza su entrambi i fronti: l’unico vantaggio è che, finita la moda DFW, non sarà più necessario fingere di aver letto DFW. Marcito è quel fiore all’occhiello: Wallace era un genio vero, difficilmente appuntabile alla giacchetta; era un genio, e quindi incompreso, ai limiti dell’incomprensibile, soprattutto nei romanzi, da La scopa del sistema (1987; in Italia con Fandango nel 1999) a Infinite Jest (1996), dal Re pallido (2011) a Portatile, l’ultimo florilegio-compendio-bigino edito da Einaudi nel 2017.
Che la produzione wallaciana sia complessa, ardua e forse inabbordabile lo ha sempre sostenuto anche un suo esimio collega nonché amico, Jonathan Franzen: “Più ci si avvicina, più il quadro si fa fosco… Solo conoscendolo meglio si poteva capire veramente che sforzo eroico fosse per lui non solo stare al mondo, ma scrivere quelle cose meravigliose”. Figuriamoci leggerle. L’ultimo titolo riedito da Codice nel 2017, ad esempio, Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito, è inavvicinabile per chiunque non abbia un qualche rudimento di algebra: “La conclusione del Paradosso di Galileo è che il Quinto Assioma di Euclide è contraddetto dagli insiemi infiniti di tutti gli interi e di tutti i quadrati perfetti”. E chi lo spiega ai lettori italiani che Galileo fu soprattutto un eccellente matematico (e astrologo), non solo e non tanto lo scienziato rivoluzionario – la rivoluzione si chiama “copernicana” – del cannocchiale (scopiazzato)?
Di tutta l’opera wallaciana i più fruibili sono i racconti (La ragazza con i capelli strani; Brevi interviste con uomini schifosi; Oblio; Questa è l’acqua) e i più godibili i reportage di new-new journalism, tipo quelli di Considera l’aragosta. Lì l’inviato agli Oscar del cinema porno appunta: “L’ispettore (di polizia, ndr) era un patito dell’hard-core… Ad attrarlo erano le facce delle interpreti… ‘Certe volte è come se rivelassero la loro, come si dice… umanità’”. Ecco, appunto: “La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano”.