Continua a esplorare il tema di "Father and son". Quel film raccontava di uno scambio di bambini, questo di una famiglia in cui i vincoli non sono di sangue, ma affettivi.
«La domanda che mi interessa è: qual è il legame che tiene una famiglia unita? Il sangue o il tempo vissuto insieme? Sono diventato padre, lotto per essere un buon genitore, ma in realtà mi pare che solo quando si smette di fare il padre lo si diventi per davvero. Anche questo è uno dei temi del film. Poi c’è un fatto di cronaca, una frode, che ho letto su un giornale giapponese: una famiglia continuava illegalmente a ritirare la pensione dei parenti morti. Il divario sociale tra le classi si è ampliato in Giappone negli ultimi cinque anni e ci sono sempre più persone che restano fuori da una rete di sicurezza che dovrebbe garantire tutti».
Cosa, per lei, costituisce una famiglia?
«Stavolta la domanda è: dove trovi i tuoi legami? Nel film ogni personaggio è stato abbandonato e ha una risposta diversa. Insieme hanno creato un nuovo nucleo. Purtroppo nella società giapponese i legami di sangue sono ancora fondamentali. Per questo l’affidamento non funziona e non esistono forme diverse di famiglia. Il mio paese è indietro rispetto a tante altre realtà».
Il suo nuovo film affronta la famiglia dal punto di vista sociale.
«Negli ultimi dieci anni la paternità, la perdita di mia madre, mi hanno spinto a raccontare le storie dei condomini in cui sono cresciuto. Da qualche tempo ho deciso di abbracciare una prospettiva più ampia, guardando la società giapponese moderna».
I personaggi sono ladri, taccheggiatori, bugiardi. Eppure ci si affeziona.
«Non li giudico. Sono criminali ma anche creature abbandonate. Li racconto da dentro per creare nello spettatore un sentimento complesso, che oscilla tra condanna e comprensione: noi siamo in grado di giudicarli?»
A quali registi ha guardato?
«A Truffaut, Ken Loach, a De Sica: sono i loro capolavori che ho avuto in mente».
Quando è nato il suo amore per il cinema?
«Mia madre era appassionata, in casa fin da bambini si guardavano film, ma erano film hollywoodiani doppiati, classici. Mi sono invece innamorato del cinema all’università quando, nel cineclub, ho scoperto Fellini: La strada, Le notti di Cabiria hanno avuto un impatto straordinario sul diciannovenne che ero. Ho pensato: questo regista ama la sua attrice. Giulietta Masina era la moglie, ma non lo sapevo. Ho pensato che il cinema può catturare l’amore. Che il regista può trasmettere le sue emozioni al pubblico. E che catturare l’amore significa non giudicare i propri personaggi».
Com’è la situazione in Giappone per i giovani cineasti?
«Io sono fortunato. Ma la situazione è sempre più difficile, i finanziamenti al cinema indipendente sono drasticamente ridotti. Ai giovani s’impedisce di osare qualcosa di diverso, che non sia l’adattamento di libri o remake. Ci sono sempre meno cineasti che sperimentano storie originali. E non c’è un sistema di supporto al cinema come invece in Francia. Sono preoccupato. Io stesso da tempo ho in mente un film che però è difficile realizzare perché affronta un argomento che susciterà molte polemiche nel mio paese».
Di che si tratta?
«Un film storico sul ruolo del Giappone durante la Seconda Guerra mondiale, quando ha invaso e colonizzato la Manciuria. Difficile trovare finanziamenti su un tema del genere. I giapponesi vogliono cancellare questo crimine, rimuoverlo dai ricordi: sono pronti ad accettare solo storie in cui sono vittime, come Hiroshima, e non vogliono sapere delle aggressioni compiute dalla generazione dei loro nonni. Invece da cineasta sento di dover affrontare questo argomento, come in passato hanno fatto registi meravigliosi come Oshima e Imamura. Non voglio fare un documentario, ma una storia per il grande pubblico e mi serve un grande budget. E per i personaggi coreani e cinesi vorrei attori di quelle nazionalità».
Com’è il rapporto del Giappone con questi paesi?
«Profondo e complesso. Dopo la Seconda guerra mondiale il Giappone non ha affrontato il passato e non c’è stato un dialogo come la Germania ha fatto con gli altri stati europei. E per questo in un certo senso il Giappone è orfano dell’Asia. Ma questo è un discorso complesso e politico. Le storie di famiglia o legate alle famiglie riescono a trovare finanziamenti e risorse in modo molto più rapido, ed è per questo che ho potuto girare Un affare di famiglia».