Corriere della Sera, 24 agosto 2018
Riformatore o tradizionalista? I troppi pasticci del principe Mbs
Ieri, il governo dell’Arabia Saudita si è sentito in dovere di smentire l’annullamento definitivo della quotazione in una Borsa internazionale di Aramco, la compagnia petrolifera di Stato. Da settimane ci sono voci nella finanza internazionale circa l’abbandono dell’ambizioso progetto. Il ministro dell’Energia Khalid al-Falih ha dunque emesso un comunicato per ribadire che una quota della società sarà messa sui mercati «quando le condizioni sono ottimali».
È la conferma di un rinvio a data da destinarsi e mette in luce le difficoltà che il leader saudita Mohammed bin Salman (Mbs) incontra nel progetto di riforma del Paese, chiamato Vision 2030.
Aramco è la chiave di volta della trasformazione di cui l’Arabia Saudita ha bisogno e sulla quale Mbs sta giocando potere e credibilità. La società che controlla i pozzi di petrolio ha un valore enorme, tra i mille e i duemila miliardi di dollari (molto dipende dal prezzo del greggio). Il governo vuole monetizzarne una parte per finanziare le riforme: per riconvertire l’economia oggi a monocoltura petrolifera, per combattere la disoccupazione, per rafforzare le forze armate tropo inferiori a quelle del nemico Iran, per impedire che le forze più conservatrici della famiglia reale e del clero blocchino anche quel poco di riforme civili che si stanno introducendo.
L’ambizione di Mohammed bin Salman – principe della corona che governa il Paese su mandato del padre, re Salman bin Abdulaziz al-Saud – sembra che sia però finita nella sabbia (sorry). Non si capisce (l’Arabia è chiusissima all’informazione) se per ostacoli inattesi o se per l’opposizione dei conservatori e dei rivali interni alla famiglia reale. Fatto sta che le recenti iniziative di Mbs risultano erratiche.
Le grandi promesse non si concretizzano. La città di Neom, altamente tecnologica da costruire ex novo per un investimento di 500 miliardi e cruciale nella trasformazione dell’economia, non fa passi avanti. L’idea di ridurre il numero di dipendenti pubblici sembra in frigorifero: è anzi stata annunciata l’intenzione di assumere altri 500 mila funzionari, per combattere la disoccupazione (al 13%).
Nelle settimane scorse, Riad ha aperto un contenzioso in apparenza inspiegabile con il Canada, il cui governo ha osato criticare, con un tweet, la detenzione in Arabia Saudita di parenti di suoi cittadini: Mbs ha espulso l’ambasciatore canadese; ha bloccato il commercio e i voli tra i due Paesi; ha sospeso gli scambi di studio. Ancora non è chiara la razionalità dell’isolamento ordinato contro il Qatar. E ancora meno si sa di cosa sia successo quando, l’anno scorso, il primo ministro libanese Saad Hariri è rimasto in «soggiorno» (forzato) a Riad. Nemmeno spiegato è l’arresto, ordinato da Mbs, di decine di membri della famiglia reale, accusati di corruzione e tenuti prigionieri all’hotel Ritz Carlton. Per non parlare della violazione continua dei diritti umani che si contrappone all’apertura dei cinema e al diritto di guidare alle donne. Sullo sfondo, la guerra nello Yemen che i sauditi stanno combattendo contro i ribelli appoggiati dall’Iran rivela l’impreparazione dell’esercito di Riad.
In questo quadro, Mbs ha bisogno di estrarre denaro dalla Aramco. In attesa della quotazione, complicata e delicata, l’idea è quella di vendere alla società stessa una parte del complesso chimico Sabic, di proprietà dello Stato, per una settantina di miliardi di dollari. Oppure di cercare un megaprestito di una dozzina di miliardi. Oppure cedere una piccola ma ricca quota della stessa Aramco a interessi cinesi: cioè ai nuovi finanziatori di ultima istanza dei governi bisognosi. Riformare nel Golfo è un’impresa vera.