il Giornale, 24 agosto 2018
In morte del pugile Franco Cavicchi
Franco Cavicchi era un bronzeo gigante dalle mani dure e gigantesche, figlie dell’arte contadina, una boxe sobria e tecnica ma senza l’animo del guerriero. È morto a 90 anni dopo una vita fra ring e campi agricoli. L’agricoltura era vera passione, forse la ragione di vita. Sul quadrato batté broccacci e gente di valore. Non proprio gigante buono, piuttosto colosso dal cuore d’argilla.
Eppure attraeva: a metà degli anni 50, Cavicchi era lo statuario colosso dei pesi massimi, emiliano nato a Pieve di Cento (12 maggio 1928), capace di trascinare folle allo stadio, ci voleva la Celere per tenere tutti tranquilli. Picchiava, pur limitando i colpi: presi e subiti. Diceva: «Non si danno 10 pugni, se ne bastano 8». A Bologna (26 giugno 1955) arrivarono in 60mila allo stadio Comunale per l’europeo contro Heinz Neuhaus, definito il birraio di Dortmund. Le poltronissime costavano 16mila lire. L’animus pugnandi di Cavicchi tenne duro e, dopo 15 round, l’Italia aveva il suo campione d’Europa. Seguì una replica l’anno seguente. Ma poi (30/9/1956) arrivò la sfida di Ingemar Johannsson, biondo picchiatore svedese: il nostro condusse il match quasi in porto, ma nel 13° round bastò un solo pugno e l’animus si sgonfiò. Disse: «Non è necessario essere eroi». Qualche anno dopo, a New York, Johansson avrebbe vinto il mondiale contro Floyd Patterson. Cavicchi, invece, chiuse la carriera nel ’63.
Umberto Branchini lo classificò 3° fra i massimi italiani e, per gli anni ’50-80, fra i migliori 10 d’Europa. Oggi avremmo detto: poteva dare di più.