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 2018  agosto 23 Giovedì calendario

Biografia di Antonio Pietrangeli

Nel 2009, dopo il successo di Gomorra, ci pensò su Matteo Garrone. Con un occhio alla realtà mediatica di Vallettopoli, e l’altro che si sarebbe momentaneamente dischiuso su Fabrizio Corona, ritenne di votarsi “alla storia di una ragazza che attraversa certi ambienti del nostro paese, un po’ come l’Adriana di Io la conoscevo bene”. Soprassedette, ma come ha insegnato Dogman, e il prossimo Pinocchio, non è detto che non ci ritorni, con l’avvertenza resa esplicita 10 anni or sono: “Non parliamo di remake, quel film è un capolavoro, l’ho amato molto, ma ci sarebbe lo stesso rapporto che esiste tra Paisà e Gomorra”. Su input dell’allora direttore Gianni Amelio, Matteo scelse Io la conoscevo bene quale film creditore per la serie Figli & Amanti del Torino Film Festival, fregandosene dell’abituale ritrosia a indicare connazionali tra i registi preferiti: “Gli italiani non li dico, perché se escludo qualcuno poi protesta”.
Fece un’eccezione, e fece cosa buona e giusta. Perché Pietrangeli per il cinema nostrano non è mai stato il bell’Antonio, bensì quello nascosto, recondito, diciamo pure trascurato e sottovalutato. Il mea culpa, tardivo ma in bella copia, risuonò nel 2015 al MoMA, quando il Department Film del museo newyorkese in sinergia col Luce licenziò Antonio Pietrangeli: A Retrospective, “l’occasione per omaggiare un maestro autentico ma laterale nelle storiografie del cinema, figura appartata nel passaggio epocale tra i due grandi momenti del cinema italiano – il Neorealismo e la Commedia all’italiana – ma che ha avuto un’influenza sotterranea e talvolta dichiarata in due generazioni successive di registi”. Per la precisione, raramente dichiarata.
Nato a Roma il 19 gennaio del 1919, Pietrangeli forse è arrivato con troppo anticipo: moderno, meglio, contemporaneo oltre la sua stessa consapevolezza, e poi sensibile, profetico, il regista delle donne viste quali donne e non come complementi d’arredo, propaggini maschili, altra metà del cielo, gentil sesso e simili idiozie. Quel titolo in bocca sua, ovvero davanti la sua macchina da presa, non stona, non è millantato credito, ma mera constatazione: la donna, Antonio, la conosce bene, ed è la conoscenza di chi ha voluto capire, ha saputo apprezzare e dunque riservarle il primo piano.
Se quella di Antonioni è intellettuale, quella di Fellini carnale, la sua è conoscenza sentimentale, senza smancerie né secondi fini: non ci prova, si prova. E quanto sia un traguardo inedito, coraggioso e valoroso non lo comprende nessuno, nemmeno il figlio Paolo, cantautore e regista: “Da ragazzo (lo) trovavo poco rivoluzionario prima di capire – ha confessato a Malcom Pagani – che la rivoluzione sta nelle cose che fai e non nelle enunciazioni”.
È quello della sua educazione cinematografica un tempo che non conosce paura, i film si fanno per concorso di intelligenze e non come oggi per solipsismi vigliacchetti, e Antonio mette a disposizione la sua mansarda: Flaiano, Amidei, Sonego, Guerra e Maccari, le idee volano, le immagini fluttuano, la potenza creativa è atto collettivo.
Pietrangeli viene dalla critica, dall’insegnamento al Centro Sperimentale, dall’aiuto a Luigi Chiarini (Via delle Cinque Lune, 1942) e dalla scrittura, tanta: Ossessione, Europa ’51, La lupa. La prima regia è già donna, è Il sole negli occhi del ’53, e apre la strada alle commedie all’italiana che verranno, alle italiane e non che ospiteranno: Adua e le compagne, girato nel 1960, mette le graziose Simone Signoret, Sandra Milo e Emmanuelle Riva nel post legge Merlin; quel misconosciuto gioiello del ’63 che è La visita è ancora con la Milo; La parmigiana sempre del ’63, con Catherine Spaak; Il magnifico cornuto del ’64 è con l’esotica e borghese Claudia Cardinale; Io la conoscevo bene (1965) non è solo il film della vita di Stefania Sandrelli, e quello che Gino Paoli non voleva facesse, ma il viatico di Solvi “Sarò la tua birra” Stubing.
Con Scola e Maccari alla parabola di Adriana Astarelli, sedotta e respinta dal mondo dello spettacolo, Pietrangeli lavora da un tot, ha già scelto la prediletta Milo, che però viene dal flop di Vanina Vanini (da cui il “Canina Canini” di Enrico Lucherini): lo stand-by si interrompe con l’entrata della diciannovenne Sandrelli, che ci mette anima fanée e corpo in fiore, ma non la voce (doppiata da Manuela Andrei). È in quella parabola di desideri orizzontali, uomini obliqui e donne spezzate che Pietrangeli aguzza la tenerezza, spunta la ruvidezza e perfeziona la maniacalità: un film – vince di un’incollatura su La visita e La parmigiana – che non invecchia, non va in pensione, perché tocca la mentalità dei rapporti tra i sessi, la meccanica del sistema e il sottobosco del potere, una triade ben lungi dal cambiamento.
Fa effetto, oltre che tristezza, pensare che tutto questo l’abbia realizzato in appena 49 anni: Come, quando, perché viene ultimato da Valerio Zurlini, ed esce postumo. Pietrangeli è annegato durante le riprese a Gaeta, il 12 luglio del 1968. Lascia in pegno uno sguardo unico, un’empatia rara, una cultura sensibile, dei film splendidi. Forse al più eterodosso, il satirico Fantasmi a Roma (1961), interpretato da Mastroianni, Eduardo De Filippo, Gassman e Milo, consegna il suo testamento, quantomeno lo specchio riflesso di come il nostro cinema l’abbia inteso: dice la squinternata Regina (Lilla Brignone), “io je regalo er Colosseo… tanto che me ne faccio… è tutto bucato”. Ecco, al posto del Colosseo mettete Antonio Pietrangeli.