È lei che, rude e sarcastica come sempre, metterà a repentaglio il suo distintivo pur di fare giustizia. «Ho pensato che sarebbe stata una sfida interessante vedere il mondo attraverso gli occhi di Roberta — spiega MacBride — e a chi non piace una sfida interessante?».
Mr MacBride, per crearla si è ispirato a una persona vera?
«È completamente inventata. Volevo che fosse l’antitesi dell’ispettore Insch, un poliziotto da manuale, irascibile e prepotente. La cosa inquietante è che ho ricevuto email da agenti di polizia di tutto il mondo che dicevano di avere lavorato con lei.
Pare che ci siano sette diverse Roberta Steel».
La sua è in servizio ad Aberdeen, la città dove è cresciuto.
«Quando ho iniziato a scrivere, quasi tutte le storie erano ambientate a Edimburgo o Glasgow. Adesso è diverso: gli scrittori hanno capito che possono raccontare le loro comunità e questo offre ai romanzi molta più ampiezza e consistenza».
La squadra de "Il Ponte dei cadaveri" è divertente e surreale, anche se i crimini sui cui indaga sono terribili.
«Per decenni nei polizieschi abbiamo incontrato investigatori dalla faccia cupa, il che ha negato loro una parte essenziale di umanità. Le persone vere, i poliziotti veri, hanno senso dell’umorismo».
Chi ha influenzato la sua scrittura?
«La comica Victoria Wood. La sua interpretazione di personaggi imperfetti, divertenti e umani era incredibilmente abile. Si può fare molto con sfumature, non sequitur e livelli nascosti».
Qual è la chiave per una grande storia di suspense?
«Creare personaggi in cui puoi credere. Non devono piacerti, ma devi crederci».
Come trova il ritmo giusto per non annoiare il lettore?
«Un libro dovrebbe essere come un ottovolante, non uno sprint. Abbiamo bisogno del brivido che si prova precipitando ad alta velocità, ma è il lento clic-clic-clic fino alla cima che crea la tensione per la prossima corsa a rotta di collo. E non importa se quell’accelerazione è una bomba a orologeria letterale o emotiva, è il contrasto che la rende soddisfacente. Se tutto accadesse allo stesso ritmo, lento o veloce, diventerebbe noioso molto rapidamente».
Gli scrittori sono spesso tentati di rompere le convenzioni di genere, offrendo ai lettori qualcosa di unico.
«La narrativa criminale, come ogni genere di fiction, ha luoghi comuni, cliché e convenzioni. A volte è bene provare a guardarli da una diversa angolazione e lavorare contro di loro. Può essere molto divertente per uno scrittore e, penso, anche per un lettore. Più un cliché è radicato, più è divertente sovvertirlo».
Il suo nome è sempre associato al Tartan noir, ma questa definizione indica davvero un genere o è solo un’etichetta di marketing?
«Il Tartan noir è una enorme borsa dentro la quale finisce qualsiasi poliziesco ambientato in Scozia, dai gialli classici alle vendette giacobine. Però funziona, sembra incoraggiare le persone ad acquistare i nostri libri, quindi non ci lamentiamo».
Qual è la particolarità della scena letteraria scozzese?
«Penso che ci sia qualcosa nel profondo del popolo scozzese che spinge a scrivere polizieschi.
Abbiamo una parola qui, thrawn, che significa che se ci viene detto di fare qualcosa, di solito facciamo il contrario. È una caratteristica nazionale che attraversa tutta la nostra narrativa criminale, dai libri di M.C. Beaton con Hamish Macbet alla serie dell’ispettore Rebus di Ian Rankin. Siamo thrawn nell’anima».
La crime fiction è una finestra sulla società?
«Sì, anche se non è scontato. Alcuni libri indossano i loro temi come piume di pavone, altri sono più sottili, ma alla fine riflettono le paure della società. È così fin da quando vivevamo nelle caverne e riuniti attorno al fuoco raccontavamo storie in grado di dare senso a un mondo ostile e spaventoso. La moderna narrativa poliziesca è solo un’estensione di questo».
Perché siamo attratti dal crimine?
«C’è tutta la vita nella narrativa poliziesca. Ci mostra le persone nel modo più crudo, i nostri vicini, le nostre comunità e le nostre società. Le paure e i desideri. Siamo attratti dalla crime fiction perché noi, tutti noi, siamo crime fiction».