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 2018  agosto 23 Giovedì calendario

Guardando Charles, Sivori e Boniperti, l’idea di un mondo giusto e ordinato

La passione per la Juventus come cardine sul quale fissare i propri ricordi, mettere ordine nel tumulto che ha accompagnato il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. Nel nuovo libro di Ernesto Ferrero (Amarcord bianconero, in uscita il 28 agosto da Einaudi, pp. 99, € 12) è questa la scelta narrativa per mettere in scena un percorso che si snoda attraverso gli ambiti rassicuranti di una famiglia solida e agiata – e di un quartiere torinese rassicurante e perbene come la Crocetta – per approdare agli studi liceali, alla scoperta dei libri e degli interessi culturali che hanno poi segnato l’intera biografia dell’autore.
Un mondo e un’esperienza raccontate attraverso i giocatori della Juventus. Dapprima quelli che affollavano i ricordi del padre – ottimo portiere delle squadre giovanili -, traboccanti di affetto per la Juve dei cinque scudetti consecutivi, quella delle magie sudamericane di Renato Cesarini («Mio padre lo aveva visto andare in giro avvolto in cravatte variopinte, con in braccio una scimmia»), Luisito Monti, «Mumo» Orsi e Felice Placido Borel «Farfallino»; poi quella ammirata direttamente, in una militanza calcistica ininterrotta, iniziata, il 16 maggio 1948, assistendo a una partita della Nazionale, un’Italia-Inghilterra che finì con un risultato disastroso, 0-4, illuminata però da un gol di Mortensen che segnò dalla linea di fondo: forse voleva crossare ma comunque la palla si infilò beffarda alle spalle di un impietrito Bacigalupo.
I grandi narratori dell’epopea
Subito dopo, arrivò la Juventus dei danesi, degli Hansen, John e Karl, e di una possente ala sinistra, Praest. E a quel punto i ricordi non sono più solo calcistici. Il racconto acquista una cifra letteraria, confrontandosi con i grandi narratori dell’epopea bianconera; romanzi come L’allenatore di Salvatore Bruno (1963), Le due città di Mario Soldati (1964), Azzurro tenebra di Giovanni Arpino (1974) accompagnano il viaggio dell’autore in compagnia di Vittorio Sereni, Pierpaolo Pasolini, Osvaldo Soriano: tutti sollecitati a spiegare un coinvolgimento che per alcuni (Sereni) fu «come un vizio innominabile o una passione segreta, una questione privata, un amore che poteva vivere solo nella penombra».
E la spiegazione, alla fine, arriva, suscitando la piena approvazione di chiunque sia tifoso: «Il calcio è l’unico sport in cui possono vincere i più deboli, in cui anche gli ultimi, i diseredati possono sperare nel miracolo, nel riscatto, in un’ora di gioia. Una fiaba in cui le stesse funzioni narrative producono risultati ogni volta diversi. Identico resta il piacere di sentirsela ripetere. Ancora, dice il bambino. Ancora, ripete il tifoso».
I caratteri originari di Torino
Affiora nel tifo per la Juventus anche una affettuosa riflessione sui caratteri originari di Torino. I danesi, con «la loro aria protestante, appena venata di una scontrosa malinconia» si intonavano perfettamente «con lo spirito della città, con l’etica della produttività e delle poche parole» e lasciavano emergere un’impronta che risaliva agli esordi juventini degli inizi ’900, quando svizzeri e protestanti furono i suoi pionieri, il barone Mazzonis, gli industriali Ajmone Marsan e pure quell’Alfredo Dick che, nel 1905, fu il presidente del primo scudetto bianconero per poi suicidarsi tragicamente nel 1909, dopo aver guidato la scissione che portò alla nascita del Torino.
Anche la Juventus di John Charles, «il gigante buono, retto, leale, disciplinato un granatiere della Regina», di Omar Sivori, «un coboldo anarcoide», e di Giampiero Boniperti, «il Segretario di Stato della Chiesa juventina: professionale, lucido, spietato», viene usata da Ferrero per confrontarsi con l’identità più profonda della sua città, così che quella Juventus assume i tratti degli esordi lontani nella Torino fordista, quando «nei sobborghi appestati dai fumi delle ciminiere c’erano decine di aziende che proprio grazie a quegli artigiani artisti sfornavano carrozze a motore. Insicure, rumorose, puzzolenti. Irrinunciabili».
A essere evocata era la Juventus dei fratelli Canfari che furono i suoi primi due presidenti, meccanici ciclisti diventati poi costruttori di automobili; era la Juventus che, attraverso gli Agnelli, avrebbe stretto un legame indissolubile con l’industria automobilistica cittadina; era la Juventus che l’autore poteva salutare in un addio alla giovinezza segnato dal placarsi delle sue ansie adolescenziali: «guardando Charles, Sivori e Boniperti, per un istante potevo credere che il mondo fosse governato dall’arte e dalla meritocrazia, che premia e condanna secondo giustizia; dunque ordinato, padroneggiabile, migliorabile».