La Stampa, 23 agosto 2018
Così nel ’51 Hannah Arendt descrisse i populismi del Terzo millennio
Le origini del totalitarismo, il saggio scritto nel 1951 dalla politologa Hannah Arendt, è considerato uno dei libri più importanti del XX Secolo per l’analisi dei movimenti politici totalitari d’inizio ’900, in particolare del nazismo e dello stalinismo (secondo Arendt, il fascismo era invece un movimento nazionalista e autoritario). All’indomani dell’elezione di Donald Trump, i giornali internazionali segnalarono la ritrovata popolarità del saggio di Arendt, assieme a 1984 di George Orwell, e rileggendo l’ultima parte del saggio, quella dedicata alla trasformazione delle classi in masse, al ruolo della propaganda e all’organizzazione dei movimenti, si capisce bene perché.
Arendt descriveva il nuovo soggetto politico come «la folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai a un partito e fanno fatica a recarsi alle urne». Secondo Arendt, i movimenti totalitari europei «reclutarono i loro membri da questa massa di gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida. Il risultato fu che in maggioranza furono composti da persone che non erano mai apparse prima sulla scena politica. Ciò consentì l’introduzione di metodi interamente nuovi nella propaganda e un atteggiamento d’indifferenza per gli argomenti degli avversari; oltre a porsi al di fuori e contro il sistema dei partiti nel suo insieme, tali movimenti trovarono un seguito in settori che non erano mai stati raggiunti, o “guastati”, da quel sistema».
Se l’analisi è familiare, è proprio perché ricorda il reclutamento popolare e di classe dirigente dei nuovi partiti populisti occidentali di questo scorcio di secolo. Allora come adesso, prendendo a prestito le parole di Arendt, questi movimenti «misero in luce quel che nessun organo dell’opinione pubblica aveva saputo rilevare, che la costituzione democratica si basava sulla tacita approvazione e tolleranza dei settori della popolazione politicamente grigi e inattivi non meno che sulle istituzioni pubbliche articolate e organizzate».Arendt elenca gli errori dei partiti politici tradizionali e la complicità delle élite borghesi tra le concause del successo dei movimenti totalitari ma, di nuovo, è impressionante quanto la fotografia del risveglio delle masse di allora rimandi a quella attuale: «Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino allora a rimorchio dei partiti, in una grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che non avevano nulla in comune tranne la vaga idea che (…) i rappresentanti della comunità rispettati come i suoi membri più preparati e perspicaci fossero in realtà dei folli, alleatisi con le potenze dominanti per portare, nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina».
Anche le pagine dedicate all’organizzazione dei movimenti totalitari degli Anni Trenta sembrano cronaca dei nostri giorni: «Sono organizzazioni di massa di individui atomizzati e isolati, da cui, in confronto degli altri partiti e movimenti, esigono una dedizione e fedeltà incondizionata e illimitata; ciò da prima della conquista del potere, in base all’affermazione, ideologicamente giustificata, che essi abbracceranno a tempo debito l’intera razza umana» e, per questo, «sono stati definiti società segrete operanti alla chiara luce del giorno» perché, come queste, «adottano una strategia di coerenti menzogne per ingannare le masse esterne di profani, esigono obbedienza cieca dai loro seguaci, uniti dalla fedeltà a un capo spesso sconosciuto e sempre misterioso».
E se non fosse chiaro, anche in tempi di fake news e post verità, Arendt continua così: «Forse il massimo servizio reso alle società segrete come modello ai movimenti totalitari è l’introduzione della menzogna coerente come mezzo per salvaguardare il loro mondo fittizio. L’intera gerarchia dei movimenti, dall’ingenuo simpatizzante al membro del partito, alle formazioni d’élite, all’intima cerchia intorno al capo, e al capo stesso, può essere descritta dal punto di vista del curioso miscuglio di credulità e cinismo in varie proporzioni con cui ciascun militante, secondo il suo rango, deve reagire alle mutevoli affermazioni menzognere dei dirigenti e all’immutabile finzione ideologica centrale». In un passaggio, citato anche dal recente libro di Michiko Kakutani, The Death of Truth, Arendt scrive: «In un mondo in continuo mutamento, e sempre più incomprensibile, le masse erano giunte al punto di credere tutto e niente, da pensare che tutto era possibile e niente era vero».
La grande novità degli Anni 30, che pare non sia servita da lezione al mondo contemporaneo, era che «la propaganda di massa scoprì che il suo pubblico era pronto in ogni momento a credere al peggio, per quanto assurdo, senza ribellarsi se lo si ingannava, convinto com’era che qualsiasi affermazione fosse in ogni caso una menzogna. I capi totalitari basarono quindi la loro agitazione sul presupposto psicologicamente esatto che in tali condizioni la gente poteva essere indotta ad accettare le frottole più fantastiche e il giorno dopo, di fronte alla prova inconfutabile della loro falsità, dichiarare di aver sempre saputo che si trattava di una menzogna e di ammirare chi aveva mentito per la sua superiore abilità tattica».
Pensando al nazismo e al comunismo, Arendt ha spiegato perché sono falliti i tentativi di neutralizzarli, e la spiegazione è più che mai attuale: «Uno dei principali svantaggi del mondo esterno nei rapporti coi regimi totalitari è stato costituito dal fatto che, ignorando tale sistema, esso confidava che la stessa enormità delle menzogne ne avrebbe causato la rovina o che, prendendo in parola il capo, sarebbe stato possibile costringerlo a rispettare gli impegni, a dispetto delle intenzioni ordinarie. Il sistema totalitario è purtroppo al sicuro da queste conseguenze normali; la sua ingegnosità sta appunto nell’eliminazione di quella realtà che smaschera il bugiardo o lo obbliga ad adeguarsi alla sua simulazione». Quella di Arendt, insomma, è l’analisi storica sulle origini del totalitarismo, ma riletta oggi suona anche come una profezia sulle conseguenze politiche di un dibattito pubblico che non si basa più sui dati di fatto e che si lascia guidare dalla post-verità.