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 2018  agosto 23 Giovedì calendario

Meno 38 miliardi: la fuga record degli stranieri dai titoli italiani

I mercati, a modo loro, votano. L’urna non sta nelle scuole il giorno delle elezioni, ma nei portafogli dei gestori a partire da quello successivo. Se comprano, significa che il governo gli piace. Se vendono, c’è da preoccuparsi. Negli ultimi due mesi dall’Italia sono usciti 72 miliardi di euro. Gli ultimi dati della Banca centrale europea confermano un importante deflusso di capitali. Trentaquattro miliardi di euro a maggio, trentotto a giugno. Gran parte di questi sono obbligazioni statali – rispettivamente 25 e 33 miliardi – il resto sono titoli obbligazionari di aziende private. Per trovare dati così negativi bisogna tornare indietro con le lancette al 2012, nel momento più delicato del governo Monti, quando la Spagna è a un passo dal default delle banche e la zona euro vicina al collasso. La percentuale di detentori stranieri di Bot e Btp dimostra che l’Italia sta attraversando una crisi di fiducia non molto diversa da allora: due mesi fa erano il 33,4 per cento del totale, ora sono il 30,8.
Al lettore anti euro farà piacere sapere che nel frattempo è aumentata la quantità di titoli pubblici in mano alle banche italiane, ma è un’arma a doppio taglio: quanto più è alto il debito detenuto dai propri istituti, tanto più è alto il rischio di alimentare la spirale perversa fra rischio sovrano e rischio bancario. Non solo: l’uscita dei capitali esteri prima o poi si riflette su crescita e occupazione. 
Cosa sta accadendo? A parità di rendimenti (sono attorno al 3 per cento) l’aumento dei tassi di interesse voluto dalla Federal Reserve rende più conveniente spostare i capitali negli Stati Uniti e l’acquisto dei più solidi Treasuries. È un fenomeno di cui c’è traccia in tutte le economie emergenti, e che sta contribuendo alla nuova crisi argentina. Ma la ragione principale del deflusso è l’aumento della sfiducia verso l’Italia. Le prospettive di crescita dell’economia stanno peggiorando, e nel frattempo il governo promette di andare allo scontro con l’Europa per ottenere un aumento del deficit ben oltre lo 0,9 per cento scritto nell’ultimo Documento di economia e finanza. 
Il giudizio degli investitori non è pregiudizialmente contro il Movimento Cinque Stelle o la Lega. La fuga non è iniziata il 4 marzo, ma solo dopo l’accordo fra Di Maio e Salvini e soprattutto dopo le prime indiscrezioni sul programma di governo, a metà maggio. Basta guardare la serie storica della Banca d’Italia: a marzo il saldo era stato positivo per 22 miliardi, ad aprile per dieci. 
La domanda che si fa chi ha in tasca titoli italiani è piuttosto semplice: il governo riuscirà a mantenere le promesse elettorali senza sfasciare i conti pubblici? L’atteggiamento della maggioranza giallo-verde finora è stato ambiguo. Da un lato il ministro del Tesoro Giovanni Tria, che insiste in una strategia di prudenza e gradualità, dall’altra il resto del governo, che minaccia di sforare il 3 per cento nel rapporto deficit-Pil e dice apertamente di temere la tempesta perfetta sull’Italia. Non ne parlano solo Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ma ora anche il (solitamente) prudente Giancarlo Giorgetti. Più che una profezia che si deve autoavverare, un alibi grazie al quale chiamarsi fuori dalle regole. Il momento della verità sarà la bozza di legge Finanziaria per il 2019, a metà settembre. Se la manovra verrà percepita come una minaccia alla stabilità dei conti e alla sostenibilità del debito, la fuga degli investitori non potrà che proseguire. A gennaio verrà meno anche il piano Draghi, e ciò significherà un ulteriore aumento dei costi per finanziare il debito. È un passaggio dal quale dipende la sopravvivenza dello stesso governo.