Libero, 23 agosto 2018
Vittorio Feltri: «Confesso, ho la sindrome dell’impostore»
Dopo oltre 55 anni di ininterrotta attività giornalistica, in cui ho dato il meglio di me senza risparmiarvi il peggio, desidero fare ai miei lettori una confessione, che forse mi aiuterà a liberarmi da un terribile morbo di cui soffro da sempre. Mi illudo di sputarlo qui, sulla carta stampata, e poi di non esserne mai più afflitto. Arrivo al dunque, il dado è tratto, ecco, vi spiego... Sono portatore insano della cosiddetta sindrome dell’impostore, una condizione psicologica che, nonostante i risultati del mio lavoro ed alle spalle una carriera di cui potrei andare fiero, mi induce a non sentirmi meritevole del successo conseguito. Mi sono diagnosticato da solo codesta bizzarra malattia e finalmente ho potuto dare un nome a quella sgradevole sensazione che ho avvertito fin dalla stesura e dalla consegna del mio primo articolo per l’Eco di Bergamo, ossia la paura di avere fatto un pasticcio, di non essere stato all’altezza del mio compito. Ho convissuto con questo stato d’animo ogni singolo giorno della mia esistenza. Sono passato dall’Eco di Bergamo alla Notte, poi da questa al Corriere d’Informazione, da qui al Corriere della Sera, arrivando a dirigere ancora giovane importanti quotidiani e settimanali, tra cui l’Europeo, l’Indipendente, il Giornale, dei quali sono riuscito in tempi stretti ad aumentare le copie vendute in modo sbalorditivo, segnando record, tuttavia non fui in grado di guarire. Né nutro speranze che ciò possa accadere adesso. LA FORTUNA NON È CIECA Nonostante l’impegno, gli sforzi, i sacrifici, i risultati, i riconoscimenti, i traguardi segnati, non ho mai smesso di sentirmi una sorta di imbecille, un impostore capace di convincere tutti di possedere doti intellettuali e professionali inesistenti meno che se stesso, un truffatore così in gamba da persuadere migliaia e migliaia di lettori a comprare i giornali da lui diretti nonché a leggerli con passione ed interesse. Ho attribuito i trionfi a quello che io chiamo San Culo, che evidentemente deve avermi proprio in simpatia. Oppure costui è un idiota. Il che non mi sentirei di escluderlo. È il mio protettore. Lo immagino invisibile accanto a me, mentre scrivo, o mentre firmo contratti, mi guarda e sospira: «Dai, Feltri, un’altra botta di culo!». Dicono che la fortuna sia cieca, ma secondo me il mio San Culo ci vede benissimo, poiché non mi perde mai di vista. Confrontandomi con un amico, ho scoperto che non sono l’unico al mondo a soffrire di questo male incurabile. Mi fanno compagnia uomini d’affari, amministratori delegati, imprenditori, scrittori, giornalisti, di entrambi i sessi, afflitti da un senso di inadeguatezza che li conduce ad impegnarsi sempre di più in ciò che fanno, segnando straordinari gol, senza tuttavia convincersi del fatto che non sono poi così somari. Quando consegnavo i miei pezzi ai direttori eccelsi che ho avuto, puntualmente pensavo: «Stavolta si accorgeranno che sono cretino». Che sorpresa ritrovarmi il giorno dopo sulla prima pagina! Restavo attonito quando poi ricevevo i complimenti da parte del capo. «Ottimo lavoro, Feltri! Continui così». Intanto San Culo era sempre lì, al mio fianco, ed osservava: «Il merito è tutto mio». Poi il direttore sono diventato io, eppure la paura è rimasta. Ricordo il primo giorno al Corriere. Me ne stavo seduto alla mia postazione, smarrito, intimidito. I colleghi erano moderatamente gentili. In quel periodo stava per essere approvata la nuova legge sul diritto di famiglia e fui incaricato di redigere un pezzo sulla separazione dei beni, di cui non sapevo un bel niente. Mi sembra di percepire ancora la mia agitazione. Ad ogni modo, faccio questo articolo dopo essermi faticosamente impegnato e lo consegno al mio capo servizio, Galimberti, il quale lo legge e lo approva. Dal momento che sarebbe andato in prima pagina, il pezzo fu dato in copia al direttore, Piero Ottone, che verso le 18-19 mi convocò nel suo ufficio. Ottone mi aspettava in piedi davanti alla sua scrivania, con il culo appoggiato sul ripiano. A prima vista poteva apparire una situazione rilassata, invece, vederlo lì parato contribuiva ad aumentare la mia inquietudine. Ottone reggeva con la mano destra il mio pezzo e mi guardava serio. Ci presentammo a vicenda, con modi gentili mi invitò a dargli del tu e poi arrivò al dunque: «Vittorio, il pezzo va molto bene. Certo, peccato per quel congiuntivo...!». E nel concludere la frase con una sorta di vibrante rammarico, mi porse il foglio. Vedevo tutto grigio. Mi sentivo confuso. Seppi rispondere soltanto: «Adesso sistemo», e tornai di corsa nel mio stanzone. Lessi e rilessi quel maledetto articolo almeno un migliaio di volte senza trovare nessuna parola fuori posto, mi sentivo all’improvviso rincoglionito. Stremato interpellai Galimberti. Ma neanche lui riuscì a ravvisare l’errore. Non soddisfatto mi rivolsi quindi all’infallibile Zucchelli, un giornalista degli esteri, soprannominato ‘Garzanti’, in quanto bastava dargli una data o una parola per azionarlo come fosse un’enciclopedia umana e parlante. Con lui, insomma, sarei andato sul sicuro. Ecco perché precipitai nel più cupo sconcerto allorché, dopo avere atteso l’esito fremente, Zucchelli si rivolse a me con un’espressione apatica e disse lapidario: «Non c’è un cazzo». Avrei potuto rilassarmi, invece no. Il pezzo fu pubblicato così come lo avevo scritto io, provai una forte emozione nel vedere la mia firma in prima pagina sul Corriere della Sera, tuttavia ero infastidito da quell’errore invisibile e pure presente. Qualcuno se ne sarebbe accorto, e che figura avrei fatto! Passai i 20 giorni successivi tra la mia postazione e l’archivio. Ci tornavo per riprendere l’articolo e rileggerlo con la speranza che, a mente fresca, avrei intercettato lo scivolone. QUELL’ERRORE MAI FATTO Passarono gli anni e ogni tanto continuavo a recarmi in archivio, dicendo a me stesso che l’accresciuta esperienza mi avrebbe aiutato ad accorgermi di quel congiuntivo fuori posto. Intanto Ottone era diventato presidente della Mondadori e, in seguito all’uscita di un suo libro, la terza pagina mi incaricò di andare ad intervistarlo. Alla fine dell’incontro gli chiesi: «Direttore, ho una domanda che mi assilla da diversi anni. Nel mio primo pezzo per il Corriere della Sera tu scorgesti un congiuntivo sbagliato e porgendomi il foglio, aggiungesti ‘peccato’. Non ho mai trovato quell’errore». E Ottone mi rispose: «Su, Vittorio, non l’hai trovato per un semplice motivo: l’errore non c’era. Questa cosa la dicevo a tutti il primo giorno». In quel momento vidi Ottone per quello che era: un genio. Aveva voluto mettermi addosso la tensione e ci era riuscito alla grande. Quello che Ottone non poteva sapere era che io già soffrivo della dannata sindrome dell’impostore. E ora, pensandoci, mi sorge un dubbio: non è che forse è proprio grazie ad essa se sono riuscito nel mio piccolo a fare qualcosa di buono’ San Culo scuote la testa.