Corriere della Sera, 23 agosto 2018
L’animalismo esiste dal Settecento Ma ora reclama una rivoluzione
Coccolati (troppo), spesso umanizzati, ma anche perseguitati e... mangiati. Perché la rivoluzione più lunga non si è ancora conclusa. È una storia lunga centocinquant’anni quella che Giulia Guazzaloca ricostruisce nel libro Primo: non maltrattare. Storia della protezione degli animali in Italia (Laterza). Una storia che si può dire quasi solo avviata con la riflessione teorico-filosofica sulla «questione animale». C’è chi oggi propone di includere le specie addomesticate nel patto di cittadinanza, altri sono convinti che si debbano riportare gli animali allo stato selvatico – sganciati dal rapporto con l’uomo – perché possano vivere liberi. Tra i due estremi ci sono milioni di attivisti che si battono per il benessere dei «non umani» e per ridurne le sofferenze. Ma, e questo è un punto fermo, la sensibilità zoofila non è più una fissazione per «zitellone», come doveva apparire la femminista e antivivisezionista inglese Frances Power Cobbe, che a fine Ottocento – una pioniera – si domandava «come e dove si porrà il limite del nostro supposto diritto di sacrificare il più debole per il piacere del più forte?».
Un altro dato emerge dalla ricerca di Guazzaloca, docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna: da quando nell’Italia post-unitaria nascono le prime società di protezione, la cultura e l’attivismo in difesa degli animali avrà alti e bassi, stop and go, ma non si interromperà mai. Le istanze zoofile, importate dal mondo anglosassone e legate alla cultura del liberalismo, resistono anche durante il regime fascista, che del liberalismo cerca di abolire valori e forme giuridiche. E gli sopravvivranno.
Se a minare le certezze del pensiero occidentale, che per secoli aveva postulato una differenza irriducibile tra uomo e animale, ostaggio di una visione antropocentrica, ci pensano la filosofia e la scienza del secolo dei Lumi – da Jeremy Bentham che si domanda «non parlano, non ragionano, ma possono soffrire?», a Darwin che dimostrerà le forti analogie biologiche e comportamentali tra uomini e animali – saranno poi i fermenti della rivoluzione industriale a unire femministe, operai e animalisti in difesa dei più deboli.
Il divieto di essere crudeli con gli animali diventerà un dogma dell’etica della classe operaia. Non senza mille incongruenze dure a morire, perché ci sono i pet, gli animali di casa, e i selvatici (dimenticati).
È datata 1873 la prima petizione in Italia per una legge anti-maltrattamenti, contro il tiro al piccione, i macelli, l’uccisione dei randagi, la caccia al bufalo. E sarà Giuseppe Zanardelli che, citando Ovidio («saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines», la ferocia con gli animali è una prova della crudeltà sugli uomini), nel 1889, inserirà nel codice penale dell’Italia unitaria l’articolo 491 che prevede l’ammenda di 100 lire per chi maltratta un animale.
E dunque è un basso continuo l’animalismo che improvvisamente un secolo dopo – sono gli anni Novanta del XX secolo – crescerà in modo tumultuoso. Sarà sempre una spinta dal basso a sostenere il cambio di marcia legislativo: del 1991 la legge che vieta l’uccisione dei cani accalappiati; dell’anno seguente la legge (compromesso) di protezione della fauna selvatica e la Convenzione di Washington a tutela delle specie in via di estinzione.
Ma, ancora, il nostro rapporto con gli animali rimane schizofrenico. Con una doppia morale: gli animali sono oggetti di diritti ma continuano a rimanere cose. Eppure la condizione essenziale per un cambiamento sarà proprio la rimozione dei non umani dalla categoria giuridica di res, fa notare Paola Cavaliere, tra i promotori del progetto «Grande Scimmia», che si batte per l’estensione di diritti fondamentali ai primati. Ma se il diritto animale fosse assoluto e non relativo, saremmo dinanzi a una rivoluzione copernicana. E la più evidente conseguenza sarebbe sancire l’obbligo del vegetarianismo. Per tutti.