Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  agosto 23 Giovedì calendario

Trump ora rischia davvero l’impeachment

Il «martedì nero» della presidenza Trump – la condanna di Manafort e la confessione di Cohen di aver pagato il silenzio di due prostitute su indicazione del futuro presidente per evitare contraccolpi elettorali – fa fare un salto di qualità all’inchiesta del superprocuratore Mueller. Fin qui il costruttore arrivato alla Casa Bianca ha attaccato l’inchiesta giudiziaria definendola una «caccia alle streghe» orchestrata per mettere in ombra i risultati positivi della sua presidenza. E fino a ieri molti analisti erano convinti che le ombre che gravano sulla Casa Bianca, per quanto pesanti, non avrebbero impedito ai repubblicani, alle elezioni di midterm del prossimo novembre, di mantenere la maggioranza in Congresso, pur perdendo seggi sia alla Camera che al Senato.
Dopo il terremoto di martedì, quello che Drudge Report, il sito più influente della destra americana ha definito nel suo titolo d’apertura l’«inferno aperto sotto i piedi di Trump», questa certezza si è incrinata, mentre si apre una fase nuova: dalle nuvole nere sul cielo della Casa Bianca si passa all’inizio di un vero e proprio assedio legale. Il presidente ormai è apertamente accusato di aver commesso crimini di rilevanza penale in campo elettorale. È la prima volta che accade dai tempi del Watergate, ma la legge americana vieta l’incriminazione di un presidente da parte della magistratura.
Riprende, così, quota l’ipotesi del ricorso all’impeachment, fin qui accantonata soprattutto per volontà dei capi moderati del partito democratico che hanno frenato l’estrema sinistra, consapevoli di non avere i voti in Congresso per mettere sotto accusa Trump e preoccupati, in assenza di prove schiaccianti, di non offrire al presidente un’occasione per radicalizzare ulteriormente lo scontro politico. La denuncia dell’avvocato di Trump, l’uomo che gli è stato più vicino, anche fisicamente, negli ultimi dieci anni, cambia le cose e non solo perché, insieme alla prima condanna di Manafort, dimostra che quella di Mueller non era affatto una caccia alle streghe. Michael Cohen non solo ha «scaricato» Trump sulla questione dei suoi rapporti extraconiugali con due donne, ma ora si dice pronto a rivelare a Mueller tutto quello che sa sul suo ex cliente.
E qui entra in scena un nuovo protagonista: Lanny Davis, avvocato democratico, celebre sopratutto per aver difeso, alla Casa Bianca, il presidente Bill Clinton quando rischiò l’impeachment per la sua relazione con Monica Lewinsky. Da qualche settimana Davis ha assunto il patrocinio dell’ex legale di Trump. La cosa aveva sorpreso molti, ma ieri si è capito il senso della cosa quando Davis, in varie interviste televisive, ha spiegato le ragioni della tormentata decisione del suo assistito di passare dal ruolo di collaboratore più fidato di Trump, pronto a immolarsi per lui, a quello di suo principale e più insidioso accusatore: non lo ha fatto solo per minimizzare la condanna che subirà per i reati che ha ammesso, ma anche perché si è convinto – soprattutto dopo il vertice di Helsinki nel quale si è schierato a fianco di Putin contro tutti i servizi segreti Usa – che il presidente è diventato un pericolo per tutti gli americani, un personaggio fuori controllo.
Affermazioni alle quali si può non credere, ma che hanno due conseguenze: in primo luogo, come detto, Cohen dirà a Mueller tutto quello che sa su Trump. E, a quanto pare, di panni sporchi da lavare in casa nelle sue mani ne sono passati parecchi, anno dopo anno. Questo significa che si potrebbe arrivare a una massa critica di fatti di rilevanza penale per l’impeachment anche senza prove dirette del coinvolgimento personale di Trump nell’interferenza russa sulle elezioni presidenziali del 2016. E, comunque, è immaginabile che da qui al voto di novembre continui lo stillicidio delle rivelazioni su passati comportamenti discutibili di The Donald.
La seconda conseguenza è che ora Trump non dispone più, almeno nei confronti di Cohen, della sua «arma nucleare»: il perdono presidenziale per sottrarlo all’inchiesta giudiziaria e metterlo, così, a tacere. Davis assicura che Cohen non accetterebbe mai questo perdono: ha addirittura creato un sito per raccogliere contributi volontari alla sua difesa nello scontro con Trump che prevede lungo e oneroso. Questo, ovviamente, darà fiato ai fan del presidente che lo dipingeranno come obiettivo di una congiura orchestrata da un avvocato democratico. Ma intanto Mueller lavora, accumula fatti incontestabili e per il presidente diventa politicamente impossibile bloccare il lavoro di un procuratore che non può più accusare, dopo condanne e confessioni, di indagare sul nulla.