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 2018  agosto 23 Giovedì calendario

Corsivi e commenti

Tornelli
Corriere della Sera
In Rete circola un video che si segnala per il suo alto valore civile e morale. Riprende una folla di estroversi che fanno la coda al capolinea della Cumana, il claudicante trenino che collega Napoli alla costa flegrea, in attesa di un fesso che infili un biglietto nel tornello, dando loro l’opportunità di passare a sbafo. Il clima è allegro, festoso, nulla a che spartire con la mestizia delle nazioni meno evolute, dove una fiumana di solitudini oltrepassa la barriera elettronica a testa china, dopo avere strisciato il tagliando nella fessura apposita. Al capolinea della Cumana si respirano solidarietà e fiducia. Neanche un controllore a turbare la purezza del quadro, appena sporcato dai soliti originali, pochi per la verità, che vorrebbero pagare ma non osano e girano intorno alla biglietteria con imbarazzo.Finalmente il fesso viene trovato. Il tornello scatta come per magia e la comitiva di rispettabili cittadini si compatta in scia per impedirgli di chiudersi. Sembra la traversata del mar Rosso: vecchi, donne, bambini, adulti in costume da bagno e materassino gonfiabile. Nessuno di loro ha la sensazione di venire meno a un dovere. Tutti di esercitare un diritto: quello di contestare l’infima qualità del servizio rifiutandosi di pagarlo. Finché lo finanzierà un passeggero su cento, il servizio continuerà a fare schifo, ma quale notabile oserà spiegarlo agli altri novantanove? Oltre a perdere i loro voti, poi gli toccherebbe farlo funzionare davvero.

Massimo Gramellini



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Pale
il Giornale
Non avrei mai pensato che la Regione Siciliana, con il saggio presidente Musumeci e gli assessori che furono miei colleghi, in particolare Alberto Pierobon, stanziasse 37 milioni per distruggere il meraviglioso paesaggio siciliano. Sono certo che lo hanno tutti nel cuore, a partire da Musumeci, ma, soggiogati da ridicoli precetti europei per seguire le mode che il nostro tempo concepisce, hanno pubblicato un bando che prevede 37 milioni per le fonti energetiche rinnovabili. Un crimine. Con tanto denaro che, come è sempre accaduto, ecciterà la fantasia criminale della mafia. Si illude Musumeci che gli interventi di pseudo-efficienza energetica consentano alle aziende siciliane di ammodernare i loro cicli produttivi. In realtà continua il martirio di luoghi bellissimi sottratti alla loro aura e alla loro integrità. Già in passato ci fu l’illusione di Priolo, cancro della Sicilia orientale. In realtà l’unica scelta intelligente fu, lo sa bene ogni siciliano onesto, l’istituzione dell’oasi di Vendicari, vicino a Noto, un’area molto simile a come dovrebbe essere il paradiso. Altrove le pale eoliche e i pannelli fotovoltaici hanno sconvolto aree bellissime, Francofonte, Palazzolo Acreide, Mazara del Vallo, i Nebrodi. Ma non hanno gli occhi i politici siciliani? E i soldi dell’Europa possono veramente comprare il paradiso per distruggerlo? Fermatevi, amici! E convertite quei 37 milioni di euro in sostegno all’agricoltura, alle culture siciliane, alla vostra anima.

Vittorio Sgarbi


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Prima e dopo
la Repubblica
Ci sono cesure, lungo la storia umana, che non possono essere ricucite. Bisogna accettarle per quello che sono: dividono inesorabilmente un "prima" da un "dopo". Per esempio, sentendo parlare alla radio il ministro Toninelli ho capito che lui, anche per ovvie ragioni anagrafiche, incarna il dopo, io sono prigioniero del mio prima. E non ci incontreremo mai a metà strada.
Nel mio prima l’italiano corretto, con le coordinate e le subordinate in ordine, un lessico decentemente attrezzato, possibilmente non troppa cadenza dialettale, è strumento basilare per chi fa politica. Non pretendo che le persone semplici parlino correttamente (anche se aiuta: e ci sono pastori sardi, forse con la terza media, che parlano come un libro stampato). Ma un ministro, sì. Chi prende la parola nella Polis deve avere le parole in ordine, perché il linguaggio è specchio del pensiero, e viceversa (dev’essere anche per questo che non ho mai simpatizzato per Di Pietro; non per caso molto amato dalle parti di Grillo).
Ma questo, ripeto, è il mio prima e Toninelli, che è sicuramente un bravissimo ragazzo e sarà certamente un ministro all’altezza dei tempi, incarna il dopo. I suoi requisiti corrispondono, evidentemente, a quanto richiesto qui e ora. L’unica cosa che chiedo, di qui in poi, è se per favore, senza disturbare nessuno, nel mio angolino posso continuare a preferire uno che parla come Cacciari a uno che parla come Toninelli.
Michele Serra



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Vacanze
La Stampa
Se ripenso a me, mi faccio orrore da solo. Se ripenso a me in bermuda e sneaker (ovvero scarpe da tennis), con la bottiglietta d’acqua nella tasca laterale dello zaino, in coda per entrare nella Torre di Belém, sul Tago, Lisbona. In realtà avevamo già acquistato i biglietti. Per saltarla la coda. Ma purtroppo funziona così: se acquisti i biglietti prima fai la coda corta, circa ottocento metri. Se non li acquisti fai la coda lunga, due chilometri e sei. Non vi dico che cos’è la Torre di Belém, tanto tutta Europa era in coda con me quel pomeriggio, ma per quei dodici saggi rimasti a casa tocca spiegarne la particolarità: la salita e la discesa di piano in piano, attraverso scale strettissime e tortuose, è regolata da semafori. Quando il semaforo diventa giallo, scatta un’assordante sirena che segnala l’obbligo di riparare al piano di modo che, se stai salendo, dài via libera a chi deve scendere, e poi viceversa. Non ne sapevamo nulla. Allo scattare della sirena abbiamo pensato alla simulazione di un attacco saraceno, e abbiamo proseguito entusiasti l’ascesa; sennonché alcuni colleghi di gita, tedeschi, si sono infuriati per la gravissima violazione («Italiéna! Pizza mandolino!»). Ci abbiamo messo quattro piani per capire l’arcano, finché non ce lo ha spiegato uno di Treviso, che aveva appena rischiato di essere gettato in pasto ai pesci. Ma non vi preoccupate, ha detto, ora che tocca a noi scendere, di gonzi su cui vendicarci ne troviamo di sicuro. Ed è andata così: un gruppo ha proseguito spensieratamente nonostante la sirena. Purtroppo era un gruppo di romani.
Ci siamo imbottigliati orrendamente come sul ponte della Magliana alle sei della sera e noi, ipocriti come sottosegretari, eravamo furibondi perché, gli dicevamo, noialtri italiani ci facciamo sempre riconoscere: non lo avete visto il semaforo? «Aho, ma io il semaforo manco lo guardo ar Tiburtino III, chevvòi?». Non c’era gusto. Ma, insomma, per arrivare al succo della questione, non ho fatto il bagno nelle fontane, non ho mangiato hot dog sulle scalinate delle chiese e non ho nemmeno posseduto mia moglie alle tre del pomeriggio nei parchi pubblici. Però avevo piena consapevolezza di essere parte di quella massa tritatutto e cafona che si sfama e si abbevera al bancarellificio, che blocca il traffico, che rincorre i bambini in fuga a tastare cineserie nei negozi di souvenir, che dà un’occhiata a tutto e non vede niente, se non altro per sfinimento. 
L’idea molto romantica che il viaggio alla portata di chiunque, coi voli low cost e l’affitto di appartamenti su Airbnb, ci trasformasse in una folla di allievi di Goethe, sorpresi dal crepuscolo sulle rovine monumentali a interrogare la caducità delle cose umane, è sfumata nel ridicolo. Ci rimangono le immagini dell’orda, che esporta sé invece di importare sapienza, e si infila in una cattedrale come in un fast food. In declinazione pop, il moderno bivacco di manipoli. Era ovvio. Ogni gesto è un sogno morto, diceva Pessoa, un portoghese che mi avrebbe cacciato a pedate dalla sua Lisbona. 
Venezia, Firenze, ora Cortina: ecco le città che studiano il modo di allontanare i turisti, dopo averli ingoiati per anni, e di colpo si scoprono più che sazie, obese. Che siano vandali o semplicemente troppi. Ma dovevamo saperlo almeno dai tempi in cui i movimenti marxisti e premarxisti progettavano l’emancipazione dei contadini e degli operai persuasi che, se avessero disposto di quello che gli era negato, e cioè tempo libero e denaro eccedente alla sopravvivenza, li avrebbero investiti nell’elevazione di sé, avrebbero letto Seneca e Voltaire e annullato il gap di cultura coi nobilastri nati fra biblioteche, e cresciuti nei viaggi di formazione, e sotto il cui erudito calcagno il popolo era schiacciato. Macché. Quelli che ti fanno? Qualcuno sì, ma la stragrande maggioranza ha usato il tempo libero e il denaro eccedente per volare a Ibiza, per iscriversi a un corso di pilates, per comprare a rate un Suv dimensionato alle ambizioni sociali, per rifarsi gli zigomi, per prendere a rate un ultrapiatto di una pertica e vederci l’intero campionato. Kant e Hegel, poco. Ed è la democrazia, questa. E cioè la sacrosanta e meravigliosa libertà di fare del tempo e del denaro ciò che si vuole (tranne buttarsi nelle fontane, che non si può), compreso girare il mondo senza capirci nulla, intruppati per aggiungere un selfie alla collezione, e restare le bestie che eravamo da stanziali. E se tutto questo non ci piace, è perché della democrazia abbiamo soltanto un pregiudizio. 
Mattia Feltri


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Pubblico
Il Sole 24 Ore
Il rapporto fra lo Stato e l’iniziativa economica privata costituisce un asse portante della storia economica del nostro Paese. Un asse attivo ancor prima che si costituisse una vasta area di economia pubblica e si affacciasse la questione delle nazionalizzazioni. Del resto, le imprese furono nazionalizzate non in virtù di un disegno, ma a causa di circostanze ed eventi specifici, che obbedivano però a un’impostazione di lungo periodo, imperniata su una forte presenza della mano pubblica. Per circa un secolo è stata questa la logica dominante che ha presieduto allo sviluppo economico italiano, dove coesistevano un polo pubblico e uno privato, con finalità e criteri differenti, in grado tuttavia di interagire positivamente, almeno nelle epoche migliori.
Tutto ciò è venuto meno nell’ultima parte del secolo scorso, quando si è decretata la fine di quell’esperienza, giudicata insostenibile in ragione dei costi di un’economia pubblica considerati non più sostenibili. La stagione delle privatizzazioni, oggi sul banco degli imputati, trasse origine da un giudizio duramente negativo su un sistema delle imprese pubbliche che, da un lato, appariva sempre meno orientato all’efficienza e, dall’altro, aveva dato luogo a un intreccio sempre più stretto e perverso col mondo politico. Nell’opinione di un protagonista della storia economica della seconda metà del Novecento come Guido Carli, per esempio, era questo nodo che bisognava aggredire per bloccare il processo involutivo dell’Italia. Eppure, il giovane Carli si era formato nell’ambiente dell’Iri e c’è da credere, come testimoniano le sue memorie, che non fu facile per lui lavorare all’estinzione di un universo di cui era stato parte.
Con le privatizzazioni, decretate in una situazione d’urgenza in cui si mescolavano ragionamenti economici e sollecitazioni politiche, si giudicò possibile venire a capo di una serie di contraddizioni italiane semplicemente smontando pezzo dopo pezzo la complessa macchina delle Partecipazioni statali. Ciò che non fu chiaro era che così si poneva termine a un modello il quale aveva orientato fin lì l’intero percorso di sviluppo dell’Italia unita. Tuttavia, privatizzare non poteva equivalere solo a un rovesciamento di segno rispetto a quando era lo Stato a gestire le imprese. Si sarebbe dovuto comprendere che, in una nazione con la storia dell’Italia, quest’obiettivo richiedeva una completa ridefinizione del rapporto tra le funzioni dello Stato e l’iniziativa economica privata. Invece, nella realtà, è successo soltanto che lo Stato ha abdicato ai suoi compiti, in contrasto con la sua lunga storia di interventismo. Così non si è verificato proprio quel che le privatizzazioni avrebbero dovuto garantire, cioè una distinzione più netta fra la classe politica e gli interessi economici diretti. Al contrario, siccome non sono state create o rese attive le istituzioni che avrebbero dovuto vigilare sui comportamenti dei soggetti imprenditoriali cui era stata delegata la gestione delle imprese ex pubbliche, ecco che la sfera opaca della collusione fra politica ed economia, lungi dal rarefarsi, si è consolidata.
Come rimediare alla situazione così insoddisfacente che si è creata? Con le nazionalizzazioni, come si propone da più parti con insistenza? Una scelta simile porterebbe a ripristinare una condizione d’origine con un’operazione praticamente impossibile. Anzitutto, perché lo Stato imprenditore non esiste da tempo e non è più in possesso delle dotazioni necessarie a governare complessi meccanismi d’impresa. Del resto, già negli anni ’80 era evidente che aveva dissipato buona parte dei suoi talenti. E dunque?
La strada, certamente difficile e impegnativa da percorrere, rimane quella di una revisione complessiva dei rapporti fra Stato ed economia. Si tratta di avere la consapevolezza che lo sviluppo economico italiano si è eretto su un forte ruolo dell’intervento pubblico. È evidente che oggi non può essere interpretato come ai tempi in cui Giolitti nazionalizzò le ferrovie. Ma esso va riqualificato e rivitalizzato con nuove competenze, capacità e poteri (senza dover inevitabilmente passare da un sovraccarico di funzioni in capo alla Cassa depositi e prestiti).
Giuseppe Berta