Lei in verità è uno dei pochi artisti che sembra sempre se stesso anche giù da un palco.
«Sì e no. La mia dimensione vera è proprio il concerto. Anzi, senza i live forse preferirei solo scriverle, le canzoni, e poi lasciarle cantare a un altro. Così eviterei anche gli inconvenienti della celebrità, come la gente che ormai neppure mi chiede un selfie, si accosta e se lo fa. Per non dire chi mi ferma a farmi i complimenti e capisco subito che non sa niente di me, sono solo un famoso. Ma ho imparato a convivere con tutto questo. E comunque alla fine vince la voglia di concerto».
Ormai però anche il tour estivo è alla fine: ultima data il 2 settembre a Treviso. Ha già in mente nuove canzoni?
«No, in tour non riesco a scrivere niente. Ma ai miei fan lascio anche la ripubblicazione del libro Saghe mentali con una nuova prefazione e, per chi comprerà la versione lusso di Prisoner 709 live, un volume di foto dal tour».
E lei?
«Mi riposerò e con calma metterò insieme le idee, se ne avrò. Magari non ne avrò e mi ritirerò, chi può dirlo? O magari farò un disco così sbagliato che inizierò il declino».
Pare difficile, questo: "Prisoner 709" è stato un successo clamoroso, forse il suo più grande finora.
«Sì, ma la decadenza prima o poi arriva per tutti. La mia fortuna è che l’insuccesso l’ho avuto quando, prima di essere Caparezza, ero Mikimix. E mi è andata bene sennò sarei stato condanato a quelle insulse canzoni. I passi falsi sono una fortuna se sai sfruttarli e riparti. Io pensavo che la fine sarebbe stato questo maledetto acufene, il ronzio all’orecchio, e che un disco per raccontarlo mi avrebbe definitivamente rovinato. Invece virare sull’emotivo, sul personale, ha avuto successo mostruoso».
Cosa ne deduce?
«Che l’acufene ce l’hanno molti più di quanto si pensi. E che è giusto uscire a settembre perché, come mi ha detto un amico, dopo tutta la merda estiva spicchi ancor di più».
Lei è tra i primi rapper italiani.Che pensa del profluvio di rap attuale?
«Quello d’oggi lo capisco fino a un certo punto, ma è normale perché ho 44 anni, il doppio dei rapper attuali, e un adulto non capirà mai un giovane a fondo».
Almeno si sarà dato una spiegazione al boom.
«Molto semplice: Facebook. I rapper di oggi e il loro pubblico sono nati con piattaforme social su cui esibire il proprio ego. Questo è particolarmente evidente nella trap, che mi ricorda il punk perché è facile da comporre e non servono abilità tecniche specfiche, anzi. Poi c’è chi scrive ottimi testi, tipo Rkomi, Rancore, Willie Peyote, Murubutu, insomma chi non parla di sesso e droga».
Non ce n’è troppo?
«Esattamente come c’era troppo rock negli anni Cinquanta. Per non dire i decenni in cui si ascoltava solo pop scialbo che parlava sempre e solo d’amore. Si vuole qualcosa di diverso dal rap? Lo si costruisca. Il rap comunque è tutto e niente, è il pop di adesso. Non è più un genere di rottura: è come un romanzo, ci può stare dentro di tutto».
In tutto questo, lei come sopravvive artisticamente?
«Perché non faccio rap, o non solo. Non lo rinnego, ci sono nato dopo la folgorazione coi Run DMC, ma faccio anche altro. Ormai sono un artista crossover e faccio un genere che mi somiglia, quindi sono diverso da tutti. Complesso anche, certo: in un mondo dove tutto si semplifica, dove in 140 caratteri di un tweet devi dire un messaggio, io amo la complessità. Per capirmi non basta una canzone, serve un live di due ore. Per fortuna mi sono coltivato un pubblico».
Come?
«Appena è scoppiato il ciclone del successo di Fuori dal tunnel non l’ho più fatta in concerto, e mi sono falciato tutta la gente che aspettava solo quella. È restato chi mi ama e mi segue per quel che sono. E sono stato costante, avrò fatto 500 live».
Costante e coerente.
«No. La coerenza è un valore, certo, ma aggiunto: la musica premia molto di più gli artisti incoerenti e la musica coerente spesso è di una noia da ammazzarsi. L’impegno dell’artista deve essere nel creare, anzitutto . Una canzone impegnata non è bella solo per questo e non è solo il testo che determina il valore artistico, sennò la classica farebbe schifo. Poi certo, scrivere di temi sociali, del mondo, per me è un’esigenza. Ma lo sforzo creativo deve andare oltre».
E se avesse 20 anni oggi?
«Ringrazio di non averli perché sarei dipendente dai social. Ma preferirei essere nato negli anni 30 del 900, così sarei stato fan di Natalino Otto, Anzi di Rodolfo De Angelis, molto più sperimentalista. Cantava Ma cos’è questa crisi?. Non le pare una canzone perfetta anche oggi?».