la Repubblica, 22 agosto 2018
Per la California il surf è legge
La California ha proclamato il surf “sport di Stato”. Di fatto era già così. Mancava il suggello di una legge. Una cultura così grande e così alta, almeno quanto le onde di Malibu, ma spesso sottovalutata, così come la musica che ad essa si legò per rappresentare una variante più smutandata e muscolare, ma forse anche più tenera ed esistenziale del rock’n’roll ("Wouldn’t it be nice?” e “Caroline no” dei Beach Boys).
Con dolcezza collettiva e un po’ di rabbia privata, la cultura del surf ha saputo fondere lo sport e il sale del mare sulla pelle, la libertà e la paura, come suggeriva Easy rider, la musica e i riverberi delle chitarre a imitazione dell’infrangersi delle onde (fu Dick Dale a elaborare quel suono sdoppiato), il cinema e le sue “estati infinite” ( The endless Summer del ‘66) che prima o poi finivano comunque, e sempre con un lui che lasciava una lei o viceversa, anche se si erano promessi amore eterno. Sotto queste bandiere emotive, dove il sole ogni tanto spariva dietro le nuvole e tutto diventava grigio e i ragazzi cadevano in depressione, come accadde a Brian Wilson, il leader dei Beach Boys, quando si rese conto di non poter competere in talento con Paul McCartney (ma aveva torto), il surf ha riunito una buona fetta di gioventù americana, a condizione che si dimostrasse capace di esprimere una qualche forma di creatività, anche vaga, anche marginale.
Come certi gruppetti che cantavano il surf anche se vivevano a New York e ovviamente sognavano la California. Jerry Brown, l’autore dell’editto, era già stato governatore della California 40 anni fa. A 37 anni aveva annusato l’era dei grandi cambiamenti. Aveva capito l’importanza della malinconia, la stessa che logorava gli Eagles. Diceva: «Le spiagge sono assolate ma il sole a volte diventa nero». E quel disco buio rifletteva l’umore di tanti ragazzi “felici”, in costume da bagno o con una chitarra in mano, pronti per la disperazione e la droga. Per almeno quindici anni, dal ‘61, al ‘74, il surf ha assorbito i risvolti meno appettibili di un’America complessa, dove i sogni con la tavola apparecchiata per praticare il “surfin’Usa” e per rimorchiare le “surfer girls” andavano a scontrarsi con il dramma dei surfer professionisti spediti per primi in Vietnam perché erano biondi, alti, muscolosi e persino sorridenti. E più erano forti e meno tornavano a casa vivi. I Beach Boys sono stati i primi coloni di questa nuova terra promessa nella quale non era prevista la felicità ma soltanto sublimi canzoni via via sempre più tristi che parlavano di come la felicità «ci ha solo sfiorato». Una delle più struggenti melodie del surf è “Surf’s up”, ossia il surf è finito. Non è un caso. John Milius rilanciò il surf nel ‘78 con Un mercoledì da leoni.
Come The Endless summer, non presentava una sola canzone dei Beach Boys. C’era “O sole mio” ma non i Beach Boys. Anni dopo Brian Wilson disse: «Quei film non hanno niente del nostro percorso musicale e umano». Il surf di Brian Wilson divenne sempre più interiore, le sue canzoni erano porte che si aprivano sui fallimenti. Il surf è uno sport esaltante. La musica e il cinema che lo hanno raccontato avevano gli occhi bassi di chi sa di aver perso. Qualcosa o tutto.