il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2018
Gad Lerner: «Il Pd riparta senza di noi, amici dei potenti»
Fa autocritica, Gad Lerner. Giornalista, amico di molti industriali dentro e fuori i giornali, poi tra i fondatori del Pd e adesso consapevole che il centrosinistra, per esistere, deve smettere di ragionare come partito degli affari.
Gad Lerner, non crede che la tragedia di Genova abbia evidenziato la stortura dei rapporti tra la sinistra e il tessuto imprenditoriale?
«La subalternità del centrosinistra al capitalismo non è certo nuova, semmai ha inizio negli anni ’90, quando i post-comunisti potevano ambire al governo nazionale e in loro si è determinata un’ansia da legittimazione: non mangiamo i bambini, sappiamo stare composti a tavola, garantiremo i vostri interessi. Detto questo non bisogna esser faciloni nell’analisi».
Cioè?
«Avviare le privatizzazioni, compresa quella delle autostrade, fu inevitabile, anche se il processo poteva esser gestito meglio se non ci fosse stata quella soggezione nei confronti dei grandi industriali. Ma il tentativo di scaricare addosso al Pd tutta la responsabilità di allora è solo propaganda: anche il centrodestra e lo stesso Salvini hanno avuto un ruolo determinante nel creare la situazione attuale».
I fischi a Maurizio Martina durante i funerali di Stato, però, sono eloquenti.
«Quei fischi testimoniano nel modo più umiliante il divario tra il gruppo dirigente di centrosinistra e le classi meno agiate. Dietro alla tragica condizione di isolamento del Pd c’è il tradimento dei vertici, la corruzione di un gruppo dirigente imborghesito, i rapporti di confidenza tenuti col capitalismo senza mai avere il coraggio di combatterne i vizi. A questo si unisce la tentazione, non certa nuova per i settori della popolazione più in difficoltà – basti pensare, pur con le ovvie differenze, agli inizi del fascismo – che il modo migliore per difendersi sia il nazionalismo».
Ma se questo pensiero esiste, non è compito del centrosinistra arginarlo proponendo un’alternativa? Altrimenti le persone cercano risposte altrove.
«È così e per questo reputo la mia biografia compromessa. Io da giornalista mi sono occupato a lungo dei lavoratori e dei loro diritti perché ritenevo giusto farlo. Ma sono un borghese benestante, un “radical chic”, l’amico di Carlo De Benedetti. Sono tutte cose vere. Per questo la nuova classe dirigente del centrosinistra non partirà certo da quelli come me. Sarà una lunga traversata nel deserto, faranno la loro parte sindacalisti, militanti della cooperazione, del volontariato sociale, ma non gli stessi che volevano essere uomini di fiducia dei grandi capitalisti e allo stesso tempo riferimento del popolo di sinistra».
Lei riconosce di non poter far parte di questo cambiamento, ma i passi indietro, ai vertici del Pd, non sembrano esser molti.
«Al di là della volontà dei singoli, ci sono dati oggettivi – dalla grande depressione della stampa alla crisi senza soluzione del Pd – che volenti o nolenti renderanno inevitabile un ricambio. A differenza di quanto continua a dire Matteo Renzi, mi sembra inverosimile che in pochi mesi il governo Conte sbatta e torni alla grande il centrosinistra. Anzi, in quel caso sarebbe più facile un rafforzamento della destra».
Nel rapporto innaturale tra politica e imprenditori, come valuta il ruolo dei media?
«L’eccesso di zelo con cui si è protetta la famiglia Benetton – e cito anche lo spirito acritico con cui era stata valutata l’esperienza di Sergio Marchionne – ha confermato un riflesso automatico dei media a difesa dei grandi imprenditori, che poi spesso sono stati (o sono tutt’ora) nei gruppi editoriali. Durante il mio lavoro ho stabilito amicizie e relazioni con alcuni di questi “intoccabili” e in certi casi conservo buoni rapporti con gli editori, ma questo non mi impedisce di riconoscere la totale assenza di spirito di indagine di questi giorni».