Il Messaggero, 22 agosto 2018
Lo scalatore Andrea Lanfri: «Ho perso gambe e dita perché non vaccinato»
Tre anni e mezzo fa, la sera del 21 gennaio 2015. Una tavolata di amici in un affollato ristorante di Lucca. Brindisi e saluti. Una volta a casa Andrea Lanfri, ventinovenne impiegato con la passione delle arrampicate sulle Apuane e della corsa, si sente male. Tempo ventiquattro ore: febbre alta, mal di testa, eruzione cutanea, collo rigido. Corsa in ospedale. La diagnosi è sepsi meningococcica fulminante, si trasmette da persona a persona attraverso le vie respiratorie, anche un semplice colpo di tosse. La meningite da meningococco C, un’infezione diffusa del sangue che scatena la necrosi dei tessuti. Uno dei primi casi dell’epidemia che, nel 2015, si diffonde in Toscana tra i non vaccinati.
L’ORGOGLIO Per Andrea Lanfri («E mi sento fortunato!») un mese di coma, poi l’operazione. Si salva. Ma perde le gambe e sette dita. Funzionano bene solo i pollici. Il viso, come quello di Bebe Vio colpita dalla stessa malattia, è segnato. Come ha potuto, sorretto dalle protesi, l’orgoglio e la forza di volontà, si è rimesso in piedi. Ha chiamato gli amici della montagna e ha provato a marciare. Per arrampicare di nuovo sulle pareti, camminare, correre. Fatica, dolore, paura per Andrea e la sua famiglia. Mamma Manuela papà Roberto e la sorella Arianna che, dopo oltre tre anni, ancora non si sono ripresi
Anche se Andrea, nel frattempo, è entrato a far parte della nazionale paralimpica di atletica leggera. Medaglia d’argento ai mondiali di Londra 2017 nella staffetta 4x100. Ed è diventato un arrampicatore doc. È tornato dal Monte Rosa poche settimane fa. Protesi costruite da lui per scalare, due pollici per tirarsi su, Moreno Pesce, atleta di trail (corsa in ambienti naturali) con una gamba amputata e gli altri della squadra che lo seguono.
Ha toccato i 4.556 metri della Punta Gnifetti del Monte Rosa sperimentando, durante l’ascensione, una nuova tecnica respiratoria per contrastare il mal di montagna, ben conosciuto dagli alpinisti e dai trekker. Uno studio, Oxygenated Natural Emotion Project, sulla possibilità di contrastare i malesseri collegati alle attività in alta quota con tecniche respiratorie specifiche. Una spedizione di 25 persone, medici compresi, partita da Staffal a 1800 metri. In quattro giorni, la vetta. Prima il rifugio Mantova a 3500 metri poi uno dei passaggi più difficili, sul ghiacciaio del Lys oltre i 4000. Adesso si allena per un nuovo obiettivo: l’Everest. Senza mai dimenticare la battaglia pro-vaccinazioni.
«Appena mi sono svegliato dopo l’intervento – racconta – mi è stata detta tutta la verità. Ho pensato subito al dopo, anche se ero distrutto dal dolore e dai pensieri. Da subito due decisioni. Riprendere la mia vita e battermi per le vaccinazioni. Se fossi stato vaccinato non mi sarei preso l’infezione». E così ha fatto. Oggi Andrea è atleta, arrampicatore, impiegato di una cooperativa culturale-turistica, testimonial, come Bebe Vio della campagna per le vaccinazioni.
I TALLONI «Vado su, in montagna, tra mille difficoltà ma non mollo. Per arrampicare cambio le protesi, ne metto di più corte per muovermi meglio. Le mani riescono a tirarmi su solo con due dita, i pollici. In parete dovrebbero funzionare bene soprattutto le gambe – aggiunge – ma io come faccio? E così, contro tutte le regole dell’arrampicata perfetta lavoro soprattutto sulle braccia. Quando scendo dalle escursioni mi appoggio sui talloni, non sempre riesco ad avere un buon equilibrio. Ma cadere vuol dire rialzarsi».
Lui sa che cosa vuol dire rialzarsi. Dopo un mese di coma i suoi arti erano ancora intatti. Le terapie miravano a fermare la necrosi. Ma si deve intervenire per forza. Il bisturi taglia gli arti inferiori, le dita e la speranza. «È il passato – dice – Oggi lotto per ricominciare e, anche con Bebe, testimonio che cosa vuol dire rischiare senza la protezione del vaccino. Noi, va ricordato, ce l’abbiamo fatta. Pur soffrendo. Siamo una fortunata eccezione».