Corriere della Sera, 22 agosto 2018
Una via a Roma per la famiglia che non tornò mai più a casa
«Settimio Calò uscì da questa casa dove abitava con la moglie Clelia Frascati e i nove figli. Quando vi tornò la trovò vuota per sempre. I suoi cari erano stati rastrellati il 16 ottobre 1943 e deportati ad Auschwitz insieme ad oltre mille ebrei in nome della politica razzista del Nazifascimo. Nessuno dei suoi familiari fece ritorno. Essi rappresentano tutte le famiglie distrutte dall’odio antisemita +S.P.Q.R. 2010»
Forse Virginia Raggi, che ha giurato di depennare dalla toponomastica romana i sostenitori delle Leggi Razziali, non è mai passata in via Portico d’Ottavia 49, vicino al Campidoglio. Ma la targa messa otto anni fa da Gianni Alemanno dovrebbe mandarla a memoria. Perché, per quel sindaco di destra, fu una vittoria e insieme una sconfitta. Aveva promesso, per marcare la sua rottura con le canaglie razziste del neofascismo, di dedicare una via a quella famiglia che ricorda come forse nessuna altra la deportazione e la mattanza degli ebrei rastrellati nella capitale quel giorno di ottobre: non solo aveva poi ripiegato sulla targa, ma il giorno dell’annuncio, 27 gennaio 2010, «Giorno della memoria», Roma aveva muri tappezzati di scritte infami: «Alemanno verme sionista». Ecco, dopo la sparata del ministro giallo-verde Lorenzo Fontana per «abrogare la legge Mancino» (tweet di Salvini: «Sono d’accordo»); dopo la decisione del consiglio comunale grillino, stoppata in extremis, di dedicare una via a Giorgio Almirante, redattore capo de «La difesa della razza» dove scriveva che «il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti»; dopo l’appello di Liliana Segre a «salvare dall’oblio» tutti quelli che «a differenza di me, non sono tornati dai campi di sterminio, che sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento»; ecco, dopo tutto questo la sindaca di Roma ha un dovere. Dare un segnale. E dedicare finalmente una strada, a 80 anni dalle Leggi Razziali del ‘38, alla moglie e ai figli di Settimio Calò uccisi ad Auschwitz dopo cinque giorni da incubo su un treno piombato partito dalla Tiburtina.
Quel giorno, in lacrime sui binari, c’era anche Letizia Calò, la sorella di Settimio e mamma di un bambino di dodici anni, lui pure Settimio, che si era fermato a dormire dallo zio a Portico d’Ottavia. Racconterà il capofamiglia, unico sopravvissuto, al nostro Silvio Bertoldi: «Il bambino si affacciò al finestrino del treno, scorse sua madre e gridò freddo: “A signo’, e vada a casa, no? Vada a casa, che ci ha l’altri bambini da cresce’”. Era la sua mamma, capisce, e lui je disse così, e lei se lo ricorda sempre adesso, da quel finestrino del treno, co’ quelle parole, co’ quelle parole... E io, nemmeno quelle, io».