22 agosto 2018
Corsivi e commenti
Selfie
Corriere della Sera
Non tutti i selfie vengono per nuocere. Quello genovese di Salvini aveva ben poco di scandaloso. Una fan ha preteso il suo scalpo telefonico dinanzi alle bare e lui si è prestato al guancia-a-guancia, stando attento a indossare una faccia da funerale. Se avesse rifiutato, avrebbero detto che si era montato la testa.
Altro discorso per Toninelli, che indossa il ministero dei Trasporti con trasporto a volte eccessivo. Il selfie che lo ritrae in vacanza nei giorni in cui a Genova si spalano i detriti e un barcone di migranti fluttua al largo dei nostri malumori, lo ha scattato e diffuso di sua iniziativa. E di sua iniziativa, temiamo, ha digitato il testo di accompagnamento, dove con grande sprezzo del ridicolo sostiene di seguire le crisi dall’ombrellone «con l’occhio sempre vigile». Per rendere meglio l’idea si è tolto persino gli occhiali, esibendo un concentratissimo sguardo da triglia.
Le vacanze sono sacre. Ma quando capiterà più a Toninelli di fare il ministro dei Trasporti, e in un’estate come questa? Un amico a cinque o anche solo a tre stelle gli avrebbe suggerito di non sbandierare i propri ozi sui social. Meglio ancora, di rinviarli a un prossimo selfie e recarsi subito in Parlamento a riferire sui fattacci di Genova, invece di chiedere più tempo per prendere informazioni, visto che in realtà doveva solo andare a prendere i bomboloni.
Massimo Gramellini
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Dio
La Stampa
Fa tutto un po’ spavento. Questa muta di cani sguinzagliata a cercare i colpevoli prima delle cause, i politici e noialtri giornalisti, tutti al servizio del lettore e dell’elettore, a saziare la smania di carne umana. I magistrati a ruota, subito dietro, a distribuire approssimative certezze del giorno. Non ci sono stati controlli, si è detto. E poi invece i controlli c’erano, e resta semmai da capire quanto adeguati. Si sono ignorati gli allarmi, si è allora aggiunto, e poi invece gli allarmi erano stati accolti senza ansia, poiché nessun allarme prediceva il disastro. E certo che ci sarà stato un errore umano, il ponte è stato costruito da uomini ed era ispezionato da uomini, ma persino un atto di superbia come la ricerca della verità richiederebbe qualcosa di meno forsennato della muta di cani che latra per il bosco, e porta a casa una verità ogni sei ore, acchiappata per la collottola come una volpe. E dovrebbe contemplare la possibilità che la verità non venga raggiunta mai, e non per trame delle forze oscure, ma semplicemente perché la verità qualche volta è fuori dalla nostra portata. Viviamo esistenze avvolte dall’inesplicabile: come ricordava qui ieri Gabriele Romagnoli, quando cinque persone morirono nel crollo del ponte di Saint Louis Rey (Perù, 1714) ci si interrogò su quali peccati portassero per meritarsi la punizione divina. Un tempo ci si rivolgeva a Dio e se ne indagavano le misteriose ragioni, non potendo incolparlo. Ora che Dio è svanito, si incolpano gli uomini - sempre e comunque e subito - per avere ragione del mistero. Da non credente, preferivo Dio.
Mattia Feltri
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Nazionalizzazioni
la Repubblica
Aproposito di nazionalizzazioni: nazionalizzate il calcio. È stato tagliato a tocchi, come un animale macellato, e venduto ai network che poi ce lo rivendono in una ridda di decoder, contratti felloni (come quello che ho sottoscritto con Sky: avevo comperato la serie A intera, dove è finita?), connessioni zoppe (come quella, già famigerata, di Dazn) e una folle macedonia di orari che leva unità sportiva all’evento chiamato un tempo "giornata del campionato di calcio" e lo spalma lungo la settimana.
Il peggio è che il peso di questa gestione ricade tutto intero sul cliente, costretto a perdere il suo tempo per orientarsi nella giungla, rimanere in linea per decine di minuti con quella parodia di servizio che sono i call center, oppure "pistolare" nervosamente sulle pagine online dei gestori, e incazzarsi perché nei labirinti la serenità si perde facilmente.
Non è pagare, il problema (anche se…). È la fatica, è il doversi riaggiornare ogni anno, imparare siglette e numerini, aggiungere password. Il vero criterio del Nuovo Mercato è scaricare sulle spalle del cliente ogni onere, perché il personale costa mentre le ore che il cliente perde per leggere i contatori, sintonizzarsi di qui e di là, aspettare in linea, imprecare contro il mondo, sono comprese nel prezzo del contratto: datti da fare tu, cliente somaro, che noi non siamo più aziende fatte di persone, noi siamo ombre, noi siamo numi, noi siamo nebulose. Ma io non voglio sprecare il mio tempo a farmi il palinsesto: lo voglio bell’e fatto, perché il palinsesto l’ho già pagato.
Michele Serra
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Strette di mano
il Giornale
«Molti amici, molti guanti, per paura della rogna», scriveva Charles Baudelaire nei suoi Diari intimi. Lo penso ogni volta che do la mano a uno sconosciuto, e mi chiedo se non basterebbe un «salve», con un cenno. È il saluto fascista che ha ridato vigore alla stretta di mano. Non credevo, però, che per gli svizzeri la precauzione igienica potesse determinare un conflitto culturale. La convenzione della stretta di mano non è infatti prescritta dalla legge, ma è una consuetudine pressoché automatica. Soltanto la deliberata decisione di non porgere la mano a una persona che si disprezza assume un significato, se dichiarata. In altre occasioni, per marcare la differenza sociale o di classe: non si dà la mano a chi si considera inferiore, o la si dà perché qualcuno non si ritenga tale. Ma, attenzione: non si dà anche alle persone più care e più vicine: non si dà ai genitori, non si dà ai fratelli, non si dà ai migliori amici. Talora non si dà a preti e prelati, per«religioso» rispetto. Si dà, in compenso, agli estranei. Sappiamo che non si dà alle donne musulmane, e soprattutto loro sanno che non si dà a te. Per questa, non intenzionale, mancanza, a Losanna è stata negata la cittadinanza svizzera a una coppia di musulmani. La reazione delle autorità è stata durissima: «La pratica religiosa non autorizza a porsi fuori della legge». Quale legge? Si può per legge imporre di mangiare maiale? Beh! Evidentemente gli svizzeri non leggono Baudelaire.
Vittorio Sgarbi