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 2018  agosto 22 Mercoledì calendario

In morte di Vincino

Mattia Feltri per La Stampa
Noi non avevamo bisogno della fisica quantistica, per cui non ha senso chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina: noi ci eravamo già arrivati, sapevamo che non aveva senso chiedersi se Vincino fosse così perché si era tirato fuori da una sua vignetta, o se le sue vignette fossero così perché ci si era infilato dentro. Lui era spettinato o scapigliato, difficile dire, come un suo pupazzetto, aveva un corpo dai confini incerti e tremolanti come un suo svolazzante omino, avanzava al rallentatore, ondulato, curvilineo, una chicane umana, camicie a quadri, maglioni a quadri, giacche a quadri, in un’architettura technicolor che rendeva reale il surreale, e viceversa, cara fisica quantistica. 

Telefonava una mattina dall’auto al desk del Foglio di Milano: sono a Orte verso Firenze, per Saint Moritz vado bene? Spediva via fax vignette blasfeme, il Pontefice in tendenza weinsteiniana, artigli lussuriosi su suorine discinte, armamentari voluttuari ovunque, per mandare ai matti il caporedattore che ci cascò per mesi, e lo chiamava disperato: non è pubblicabile, me ne serve un’altra, e lui, in un andirivieni tra sé e la sua arte, rispondeva che non era possibile, sto andando a comprare le melanzane. 
Ci abbiamo vissuto così, con Vincino, anni dopo anni all’alba dei quali avevamo rinunciato a distinguere il vero dalla narrativa, la posa dall’essenza, e avevamo capito alla svelta che confinati in quel quadratino turbinavano tratti, linee, grovigli che, come ha di recente scritto Giuliano Ferrara, non erano satira, erano qualcosa di diverso, che la precedeva e la seguiva, era un altrove, il disegnino infantile che filava dritto non al cuore, ma all’anima delle cose. Un mondo a parte, compresi gli errori di ortografia che i primi tempi gli correggevamo - ingenui - con la tracotanza dei perfettini, e lui l’indomani chiamava, eccezionalmente digrignante: lasciatemi gli errori, sono i miei errori. 
Scompariva e ricompariva dalle nostre vite, noi che lo avevamo conosciuto, da lettori, ai tempi di Tango e del Cuore di Michele Serra, e per Il Male e Ottovolante saremmo andati negli archivi, tutti giornali nati in un frastuono di opinioni folli e sagge, una sinfonia di dissonanze, una meravigliosa cacofonia perché come diceva Vincino si lavora soltanto per giornali scritti da nemici, siccome le idee nascono dal contrasto e non dalla consolazione. Sapevamo delle sue imprese deliranti, le prime pagine dei giornali - sul Male - con la notizia dell’arresto di Ugo Tognazzi capo delle Brigate Rosse, l’apparizione, vestito da Bettino Craxi, a un comizio di Bettino Craxi. Gli chiedevamo dettagli che lui liquidava in un sussurro insensato - «Mi era avanzato un garofano e non sapevo che farne» - e piuttosto ci consigliava di trovare il modo di finire in galera qualche settimana, l’esperienza più formativa della sua vita. 
Avremmo pagato oro per vederlo - leggero anzi svanito nella sua inafferrabile solidità - negli anni duri di Lotta Continua con Adriano Sofri, ma lui non si concedeva al sussiego della memoria, l’unico modo di prendersi sul serio sembrava il non prendersi sul serio, con risultati serissimi, e gli ultimi tempi capitava di incontrarlo sui divanetti di Montecitorio, coi polmoni dentro cui aveva aspirato di tutto già malati del cancro di cui - ma va? - non parlava per nulla. Faceva un cenno da sotto e da sopra la sequela di occhiali schierati per mettere a fuoco ogni distanza, accennava l’implacabile sorriso - un fremito di irresistibile dolcezza - e introduceva la conversazione a modo suo: secondo te va bene se disegno Renzi con sei cravatte? Si inchinava al taccuino e disegnava - aspetta, stai qua, diceva - e infine mostrava. È bellissima, Vincino. Spalancava la bocca, e lentamente strappava il foglietto, e negli occhi balenava la beffa, e la gioia, ed era a quel punto che evaporava per fare di sé un diluvio nella nuova vignetta. 

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Paolo Conti per il Corriere della Sera
È morto come vorrebbe andarsene chiunque abbia amato il proprio lavoro: vivo e attivo fino alla calata del sipario. L’ultima vignetta di Vincino, Vincenzo Gallo, morto ieri dopo una lunga malattia a 72 anni, è apparsa ieri sulla prima pagina de il Foglio, dove lavorava dalla fondazione, 22 anni fa. Era una auto-satira: «Comunque sarò il prossimo James Bond (di sicuro...)». Impossibile capire quanta consapevolezza della fine ci fosse in quello sghignazzo, legato alle chiacchiere hollywoodiane degli ultimi giorni (il futuro Bond potrebbe essere l’attore nero Idris Elba).
Il segno era il solito, perfettamente descritto da Giuliano Ferrara nella prefazione dell’ultima non-fatica vinciniana, Mi chiamavano Togliatti, 128 pagine di disegni e testi, indefinibile autobiografia uscita da Utet, premio Satira Forte dei Marmi 2018: «Vincino disegna sprazzi, nuvolette, ovali, tableau disordinati, concatenazioni scatenate, non vignette se non occasionalmente».
Impossibile parlare di «stile» perché era un modo di vivere, di esprimersi, di ridere e far ridere. Nato a Palermo nel 1946, laureato in architettura, esordì come disegnatore a L’Ora di Palermo approdando poi a Lotta Continua dove rimase fino al 1978. Seguì l’epopea de Il Male, che diresse per quattro dei cinque anni di vita, fondato da Pino Zac. A bordo della nave pirata che navigò fino al 1982 c’erano Vauro, Angese, Jacopo Fo, Cinzia Leone, Vincenzo Sparagna.
Fu la stagione del falso scoop di Ugo Tognazzi capo delle Brigate Rosse, con edizioni straordinarie di false prime pagine (Paese Sera, La Stampa). E dei travestimenti di Vincino nei panni di Craxi. Proprio ieri Vauro lo ha salutato così: «Hai disegnato i grandi mostri della politica italiana... e mi hai lasciato solo con i mostriciattoli!». In seguito Vincino ha deciso di volta in volta dove andare. Era un «his own man», spiega sempre Ferrara, ha sempre fatto quel che gli pareva, in sintonia con i tratti della sua matita: Il Clandestino, inserto de L’Espresso, Cuore, inserto de l’Unità, e poi a lungo il Corriere della Sera, e naturalmente il Foglio che ieri gli ha detto addio con un epigramma (sempre farina di Ferrara) che avrebbe apprezzato: «È stato la nostra speranza, il nostro specchio, la nostra risorsa d’acqua e di alcol e di fumo».
Nel 1982, come ha raccontato giorni fa in un’intervista alla rivista online Studio/Attualità, cultura, stili di vita, perse la tessera della stampa parlamentare: «L’associazione stampa parlamentare era furibonda perché vedevo e ritraevo i piccoli traffici quotidiani, i lobbisti e gli accordi sottobanco. Comunque per un anno ho continuato a entrare senza problemi, con un permesso per il pubblico, quando se ne sono accorti è scoppiato il casino. La presidente della Camera Nilde Iotti mi fece venire a prendere dai commessi, i radicali si misero a urlare in mia difesa». Vincino protestò, occupando la balconata del pubblico e satiricamente minacciando di gettarsi di lì. E venne espulso, come ricorda il nostro Giannelli nella vignetta che gli dedica qui sotto.
Ha raccontato la Prima, la Seconda e la Terza Repubblica, da Andreotti e Craxi fino al renzismo (vittima prediletta Maria Elena Boschi) e, naturalmente, a Salvini, Di Maio, Casaleggio. Le ultime vignette sul Foglio raccontano l’incoronazione di Di Maio, Salvini che diventa Alberto Sordi al ricevimento dell’ambasciata statunitense, Casaleggio che inventa una App per sostituire il Parlamento.
Staino lo ricorda così: «Ho perso un fratello e un amico, oltre che un collega, eravamo molto legati, molto affini dal punto di vista espressivo. Tutte le volte che ho realizzato dei giornali satirici, da Tango in poi, è sempre stato una sicurezza. Mi aiutava a non essere troppo ligio ai partiti della sinistra. Era l’intelligenza trasgressiva con cui dovevi confrontarti: liberaldemocratica e anarchica». Questo era Vincino.

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Michele Serra per la Repubblica
Vincenzo Gallo (Palermo 1946, Roma 2018), in arte Vincino, è stato uno dei pochi veri Grandi della satira politica italiana. Per qualità e per quantità. Inconfondibile la prima, con quegli omini storti e brulicanti che erano la sua Lilliput in marcia; esorbitante la seconda: gli omini furono migliaia e forse milioni… Negli ultimi cinquant’anni ha inondato di disegni e disegnini (che consegnava, ai tempi della carta, in condizioni spesso assai precarie) ogni giornale di satira sulla piazza, dai più popolari — il Male, Tango, Cuore — ai più sperduti e velleitari, compresi gli esperimenti più strambi e fallimentari, che lo videro sempre, entusiasta, tra i padri fondatori. In più collaborò con molti quotidiani, dall’Ora di Palermo a Lotta Continua al Corriere della sera fino al Foglio, che era diventato ormai la sua casa e rimane orfano, adesso, di un tratto decisivo della propria grafica e della propria anima. Questo aspetto decisamente promiscuo del suo lavoro, destinato a una committenza molto vasta e politicamente tutt’altro che uniforme, poteva fare storcere il naso: ma bastava riconoscere Vincino nella pagina per ritrovare, sempre intatta, la sua libertà di sguardo e di giudizio. Aveva una testa, Vincino, così impenetrabile al conformismo che avrebbe potuto pubblicare, per paradosso, anche sulla Pravda, o sull’Osservatore Romano, senza perdere il suo passo, e forse senza neppure accorgersi dov’era finito: era troppo intento a disegnare… La sua prolificità era dovuta – a parte la prodigiosa disinvoltura di penna – a una passione per la politica semplicemente smisurata.
Chi ha lavorato con lui sapeva che non esisteva episodio o personaggio, anche molto minori, della vita politica italiana, che sarebbero sfuggiti alla sua attenzione, alle sue linee brevi e distorcenti, alla sua lettura beffarda. Fu un notevolissimo, anche se del tutto anomalo, cronista politico: non per caso il suosogno giovanile, poi realizzato a intermittenza, era una postazione stabile nel Palazzo, Montecitorio e immediate vicinanze, come i veri notisti politici. Disposto, allo scopo, perfino a mettersi la cravatta, lui che incarnava anche fisicamente l’irriverente disordine del Sessantotto, che fu la sua culla culturale. Mai disposto, per contro, a quella tipica compromissione tra coabitanti che a Roma si chiama, con volgare ma perfetta sintesi, “pappa e ciccia”. Il suo disegno divideva. Era scomposto, deragliante, eppure folgorante. Il lettering, frettoloso, tutto fuorché azzimato, spesso portava errori, cancellature, sbavature, ma era Vincino anche quello, anzi era Vincino soprattutto quello: il rifiuto programmatico della Bella Forma, il disordine creativo e l’immediatezza del disegno, l’imprecisione umana descritta “dall’interno”, gli uomini di potere riportati alla silhouette minima, febbrile, gesticolante dei suoi omini dispersi nella pagina.
Non disegnava mai in differita, Vincino, sempre in diretta. Si accendevano allegre discussioni, nella redazione di Cuore, quando arrivavano i suoi disegni (tanti: forse un centinaio a settimana). Erano ancora i tempi del fax, capitava che saltasse una linea, che un tratto del disegno fosse fuori posto. Nelle vignette di Vincino non si capiva bene se era stato il fax, a “sporcare” il tratto, oppure la mano dell’autore, perché l’irregolarità era un suo marchio di fabbrica, era una specie di cubista tondeggiante, mi si passi l’ossimoro, che componeva i volti, i corpi, i ragionamenti secondo un suo percorso artistico incorreggibile, eppure, alla fine, irreprensibile. Non sono un critico, ma a me il suo disegno sembrava semplicemente geniale, forse da apparentare a qualche fantastico francese della sua stessa leva o di poco più vecchio, Reiser, Wolinski, la Bretecher, il minimalismo espressionista di quegli anni potenti, immaginosi, irriverenti, spiritosi, che affondavano la penna nell’umano senza bellurie, e senza paura. Non lo ricordo mai violento.
Velenoso sì, feroce anche, violento mai. Andò a Hammamet (con Vauro, se non ricordo male) a salutare Craxi ormai nei suoi ultimi mesi. Lo aveva massacrato per anni. Non capii perché lo faceva, capisco ora, in netto ritardo, che lo fece per sportività, per fair play, per rispetto umano del Nemico detronizzato, ma anche per curiosità personale. Il potere lo affascinava, non ha fatto altro che raffigurarlo e sfigurarlo, per la sua intera carriera; a differenza di molti altri satirici il sociale lo interessava poco, quello che lo affascinava era il Palazzo. Che se ne sia andato proprio adesso che la politica italiana è così profondamente trasfigurata, è il segno ulteriore che una stagione è finita per sempre. Tocca ad altri impugnare la penna. È lecito domandarsi chi potrà mai farlo con la stessa libertà di spirito e – stiamo parlando di satira – con la stessa magnifica allegria.

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Massimo Malpica per il Giornale
«Non c’è nessuna fine. Solo un quotidiano e faticoso (continua)». Così Vincino, in una vignetta delle sue, leggera, svolazzante, di sicura incertezza, chiudeva quaranta giorni fa l’anticipazione della sua autobiografia «Mi chiamavano Togliatti». E ha continuato, Vincenzo Gallo (il suo vero nome), almeno fino a ieri, quando la malattia con cui conviveva da tempo se l’è portato via a 72 anni. Era nato a Palermo il 30 maggio del 1946 e aveva iniziato la sua carriera con il ’68, avvicinandosi a Lotta Continua e poi cominciando a disegnare per i giornali. Prima sull’Ora, nella sua città, in Sicilia, per poi trasferirsi a Roma.
Nella capitale Vincino lavora per il quotidiano di Lotta Continua, ma soprattutto, nel 1977, fonda Il Male, indimenticabile e irriverente rivista satirica, insieme a Pino Zac e all’amico Vauro Senesi. Lo dirige anche, dal terzo numero alla chiusura, a inizio anni ’80, e lo rifonderà, Il Male, insieme a Vauro, nel 2011, per una breve seconda vita.
In mezzo c’è tanto: le liti in tribuna stampa a Montecitorio dove pretendeva di poter fare vignette contro il parere della Iotti, poi Linus, Tango, Ottovolante, il Clandestino e Cuore. E poi Corriere della Sera, ma anche Sabato, Vanity Fair, e soprattutto il Foglio, con cui inizia una lunga collaborazione che porterà molti amici di sinistra a guardarlo storto o a voltargli le spalle. Lui stesso, sul punto, disse che «la sinistra ha una capacità censoria enorme. Se diventi una voce discordante, subito ti si fa il vuoto intorno. Ti cacciano. Gli amici non ti salutano. Sei un traditore, uno schifoso, un pezzo di merda, uno stronzo».
Il rapporto col Foglio però, per quando gli sia costato, è rimasto sempre forte, sempre solido, e ieri il quotidiano lo ha pianto ricordandolo così: «Vincino era al Foglio da quando il quotidiano è nato, ventidue anni fa. Ha disegnato per noi fino all’ultimo giorno».
A salutare l’amico e il collaboratore è stato il fondatore del quotidiano, Giuliano Ferrara, che a luglio, proprio per l’uscita di «Mi chiamavano Togliatti», aveva raccontato Vincino alla sua maniera, con un ritratto toccante, definendolo un «populista antisistema», sì, ma uno «che si è informato». «Il cialtrone sofisticato - scriveva Ferrara - è stato al Foglio la nostra speranza, il nostro specchio, la nostra risorsa d’acqua e di alcol e di fumo».
Sempre libero, sempre dissacrante, anche nel quotidiano diretto da Ferrara prima e da Claudio Cerasa poi, Vincino ha disegnato quello che voleva. Prendendosi beffe pure dell’Elefantino e della sua svolta antiabortista, o collaborando - in modo spesso non ortodosso - alle campagne del Foglio, non sempre condivise ma a suo modo partecipate, vignetta dopo vignetta.
Vauro, ieri, lo ha salutato malinconico: «Hai disegnato i grandi mostri della politica italiana... e mi hai lasciato solo con i mostriciattoli! Ciao Vincino amico mio!». Anche la politica, che lui ha sempre preso di mira senza riguardi per niente e nessuno, ora lo piange. Tutti, da Gentiloni ai grillini, da Mussolini alla Gelmini, dai centristi a Forza Italia. Il vicecapogruppo azzurro alla Camera, Simone Baldelli, gli dedica pure una vignetta su twitter, con l’ultimo saluto a un «genio» e a un «maestro»: «Ciao Vincenzo, genio del Male e di tanto altro ancora. Maestro e amico. Grazie di tutto». Vincino lascia la moglie, Giovanna, e due figlie, Costanza e Caterina. E lascia infinite vignette. Frutto del quotidiano e faticoso (continua).

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Marco Ventura per Il Messaggero
«Satira muta quella di Vincino, di poche parole, molto vicina a quello che penso io della satira. Era difficile per un comunista come lui non essere di parte. Lui non lo era, aveva libertà di giudizio anche verso la sinistra. Io spesso sono stato attaccato dai satirici, da lui mai. Era un caro amico e mi mancherà molto». Il ricordo di Giorgio Forattini è stringato come la satira di Vincenzo Gallo, alias Vincino, palermitano amante di Palermo che mai si era abituato a Roma, morto ieri a 72 anni. 
«È stato la nostra speranza, il nostro specchio, la nostra risorsa d’acqua e di alcol e di fumo», twitta Il Foglio ripetendo le parole dell’ultimo pezzo uscito che un mese fa ne recensiva l’autobiografia. Anarco-radicale della schiatta di Pasolini e Sofri che la sinistra integrata non ha mai amato, figlio del direttore dei Cantieri Navali di Palermo nato savonese a Cairo Montenotte, il paese di Gigliola Guerinoni la Mantide, è il discolo di casa. Si laurea in architettura con una tesi di quelle assurde da dopo-68, un centro sociale per 20mila persone ricalcato sulla pianta dell’Ucciardone. Frequenta l’Opus Dei, sposa Lotta Continua per il cui giornale, emigrato a Roma, firma la striscia di cronaca parlamentare.
Il giorno che Vincino prende appunti in tribuna nonostante il divieto, Nilde Iotti manda i commessi a acciuffarlo mentre gli onorevoli del Pci gli urlano «cialtrone». La sua natura ribelle, trasgressiva ma anche sorniona e meridionale, da non violento che quando si rischiano le botte scappa e se i fascisti lo acchiappano urla «viva il Duce», e non disdegna lo sterco del diavolo ma ne rivendica la dignità per cui, ancora come spiegava Giuliano Ferrara «c’è sempre il problema del compenso a Vincino», e quel suo passare attraverso fogli a più tinte dal Manifesto al Corriere della Sera e al Foglio dove si accasa per 22 anni tanto che si autodefinisce «vignettista di facili costumi». E perciò libero di scorticare a destra, sinistra e centro, lo rendono un campione della satira italiana di cui fa la storia, direttore per quattro anni (su 5) del mitico Il Male, settimanale dalle esilaranti false prime pagine distribuito fra 1978 e 82. Racconta Vincino che il giornale fallì per incapacità contabili: «Se vendevamo diecimila copie in più, ci aumentavamo subito lo stipendio per alzata di mano». Racconta pure di aver fatto da «giovane e bello» due esperienze «una più divertente dell’altra: il servizio militare e la galera». Quest’ultima per aver ferito a una mano un carabiniere in caserma dopo una manifestazione a Gela nel 1972. Palermo, giovanissimo collaboratore de L’Ora, il suo incubo ricorrente era non che i mafiosi lo uccidessero ma gli tagliassero le mani. Staino ne esalta la «satira compulsiva», che trae ininterrotto spunto da cronache e Tg. Eco simile in Marco Makkox: «Vincino? Il migliore. Sicuramente il più informato, un giornalista vero rispetto a noialtri che facciamo le vignette da cabaret. Lui un vero commentatore politico. A volte leggevo la sua vignetta e dovevo informarmi per capire a cosa si riferiva. Andava sulle mezze figure, non solo su Di Maio e Salvini che son buoni tutti. Aveva accesso in tribuna. E un segno meraviglioso». Srotolare testate e inserti sui quali Vincino tornisce i suoi arzigogoli e giochi di parole e l’urticante muta ironia, equivale a sfogliare l’enciclopedia della satira nazionale: Ottovolante, Zut, L’Avventurista, Il Clandestino, Boxer, Cuore, Quaderno del Sale, Bauhaus, Avaj, L’eco della Carogna, Emme Ma anche testate importanti come Corsera, Espresso, Sabato, Manifesto, Vanity Fair e, appunto, il Foglio di Ferrara. E poi Radio Radicale. Negli ultimi anni i suoi strali, frutto di caustiche analisi dell’attualità (e fauna) politica, si sono spesso indirizzati pure a sinistra. «Hai disegnato i grandi mostri della politica italiana», lo saluta Vauro in un tweet «e mi hai lasciato solo con i mostriciattoli».

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Luca Sommi per il Fatto Quotidiano
Allampanato, dinoccolato, un elegantissimo, letterato hippie che ti guardava storto da quelle lenti fondo di bottiglia – montate su Persol da sole, modello Steve McQueen – tanto da far diventare gli occhi minuscoli, ma non lo sguardo. Quello era lungo, lunghissimo, anarchico e indipendente, da artista, quale lui era. Vincino, al secolo Vincenzo Gallo, era molto più di un vignettista, di un disegnatore satirico, era un fine antropologo, uno che smascherava i vizi dei potenti (ma anche dei deboli) facendone sintesi in tre schizzi storti, irresistibili e irriverenti. Ieri se ne è andato, dopo una brutta bestia di malattia, a 72 anni, e dopo una carriera meravigliosa, mai al servizio di nessuno. Anzi, a volte sembrava, per vezzo, godere nel disegnare su giornali apparentemente a lui lontani – ergo conservatori, ordinari, filo-tutto purché quel tutto fosse potente.
Ma in realtà tutto e tutti erano distanti da lui, che era vasto, contraddittorio e geniale, un artista senza confini né recinti, se non quelli della sua lucida e stralunata fantasia.
Vincino amava i vizi, di forma e di sostanza, i suoi disegni tremolanti non facevano né troppo ridere né troppo riflettere – queste sono cose comuni: le sue istantanee erano un pugno nello stomaco, spesso un anagramma, un’anamorfosi della vignetta. Tracimavano di cultura, erano allucinogene, piccoli trattati colorati che prendevano il senso comune di lato, mai frontalmente.
A volte erano incomprensibili – a volte addirittura la didascalia lo era – però arrivavano al centro di dove dovevano arrivare, cuore o cervello che fosse. D’altronde l’arte mica deve illustrare, bensì mostrare ciò che è invisibile agli occhi, e lui in questo era ineffabile. Nato a Palermo, ma uomo di mondo, si laurea in architettura ma non fa l’architetto, figuriamoci, lui che, come detto, aveva un’idiosincrasia genetica per le righe diritte – il rapporto pavimento-parete deve sempre essere di 90 gradi, ammoniva Le Corbusier: appunto, non roba per uno che volava tra sghiribizzi e lazzi come un uccello fluorescente e indomabile. Nel ‘68 è vicino ai movimenti studenteschi e operai, poi arriva Lotta Continua e l’inserto satirico L’avventurista. È il primo di una lunga sfilza: Il clandestino con L’Espresso, Tango con l’Unità, Boxer sul Manifesto, poi Cuore e tanti altri – ha diretto Ottovolante, quotidiano di satira che durò poco più di una settimana, geniale, insieme ad altri giganti come Roland Topor, Andrea Pazienza o Guido Buzzelli – fino alle lunghe collaborazioni con Corriere della Sera prima e Il Foglio poi. Ma il suo capolavoro assoluto fu Il Male, fatto, tra gli altri, con il suo inseparabile sodale, fratello di matita, Vauro Senesi. Quella combriccola ne fece di cotte e di crude: la più memorabile e riconoscibile fu la finta prima pagina di Repubblica che titolava “Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR”. Roba impensabile oggi, da fustigazione pubblica. Nel 2011 sempre insieme a Vauro rimanda in edicola Il Male, durò poco ma fu bellissimo, basti pensare che la redazione la piazzarono nella sede storica della Democrazia Cristiana in piazza del Gesù – roba da far rivoltare nella bara più di un notabile. Michele Santoro, uno che di televisione capisce davvero, lo aveva mandato in video, insieme a Vauro, come inviato nell’ultima edizione di Servizio Pubblico. Risultato? Due meravigliosi Totò e Peppino surrealisti e d’avanguardia, in moto-sidecar, sfreccianti a raccontare con taglio “cinico e baro” il costume degli italiani di oggi e di domani: capolavoro. Vincino in gioventù provò anche l’ebbrezza del carcere “esperienza bellissima, che consiglio a tutti”, poi il pornofotoromanzo con Cicciolina fino alle incursioni ai comizi di Craxi, camuffato da Craxi. Il situazionismo era per lui una regola, l’irriverenza il suo dogma. La sua vasta cultura non era mai citazione, mai parafrasi, ma sempre sostanza metabolizzata e poi rivomitata a modo suo, coi suoi disegni, con le sue aspirazioni e i suoi progetti sghembi ma fantastici. Era un illuminista e un surrealista insieme, amava i libri e l’uso fiero della ragione, ma per poi distorcerli, piegarli con un segno eretico. In lui c’era Voltaire e c’era Buñuel, frullati insieme, un ibrido un po’ sornione e unico nel suo genere. Un Candide a spasso per la sua personalissima e moderna Westfalia a sfregiare i vari Pangloss di turno. Però Vincino era più sornione, zero moralista, molto esistenzialista, quasi disincantato e non amava né i santoni né i santini, di qualunque colore fossero. Si arrampicava sugli specchi come nessuno, dissimulava l’evidenza come tutti e sognava di sfondare porte aperte – provaci tu, se sei capace, a sfondare una porta aperta! – diceva Carmelo Bene. Perché solo i veri artisti possono ambire a tanto, e non tutti hanno lo spirito per capire certe cose, solo le persone belle. Come Diderot, su quella panchina del Palais Royal, che intima al nipote di Rameau che “uno sciocco sarà più facilmente incline alla malvagità che un uomo di spirito”. Ciao Vincio, lassù non esagerare.

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Andrea Marcenaro per Il Foglio

Serie A, sempre. Giovanna, la ragazza più bella di Palermo, se l’è sposata lui. E tié. Due figlie. Splendente la prima sulla seconda quanto la seconda sulla prima. Una passione: la mafia. Non potete sapere quanto s’incazzava, Vincino, all’idea che sulla sua Mafia stesse prevalendo quella ’ndrangheta da pecorari. Così agli antipodi dei mandarini tardivi di Giuseppe Greco, detto il Papa, quando il magnifico nostro professor Barbera se ne appassionò nella zona di Ciaculli. Pure Marianna Bartoccelli era così. Mica che i due si amassero. Avevano in comune un tratto aristocratico, una tale passione per la loro città, e anche per loro stessi come saputissimi del genere, da quasi rimpiangere la più odiosa tra le primogeniture. Cosmopolita, uomo tra le panelle, s’avventava sulla farinata genovese e asciugava di nascosto le mani unte sotto il divano nuovo. Il nostro, divano nuovo.

Non è mai esistito, forse, Vincino. Un lampo nella cassata. Un fulmine decifrabile soltanto dagli amici tra le radici pazienti e infinite di piazza Marina. Un tratto che incespicava per chi sapeva amarlo, o capirlo a modo suo. Quanto pieno di sé, però, che testa di minchia quel giorno che telefonò due volte da Mondello. E quanto ho goduto. Raccontò, il pavone, di come i concittadini palermitani gli stessero rendendo omaggio per una spiata del Giornale sul suo compenso al Corriere. Il più alto di tutti, e baciamo le mani. Stava girando in piazza a Mondello, quel Borbone del nuovo sud cui quasi quasi gliele baciavano davvero, le mani. Alt!, riferì lui stesso alla seconda telefonata, il Cidierre s’è imbufalito. Quel Cidierre del nord. Ne seguirono compensi drasticamente segati dal Corriere. Non teneva più di voi al denaro, Vincino, però non di meno. Venne assunto al Foglio. E ne venne licenziato con grande scandalo della stampa che non sapeva informarsi, tanto meno sorridere. Lui se ne spaventò. Capì soltanto nel pomeriggio che si trattava dello scherzo di alcuni figli di mignotta che avevano amato ridere di qualsiasi cosa, quindi del Male, cioè di lui, perciò di loro stessi.