Alla Mostra auguro un film capace di dividere, eccitare, offendere e far arrabbiare il pubblico.
Perché è quello che il cinema deve fare, sorprenderti con la sua potenza». David Cronenberg, 75anni, nella lunga carriera che verrà celebrata con il Leone d’oro il 6 settembre, di brividi ne ha regalati parecchi, anche ai festival: Crash deflagrò in concorso a Cannes. «Gilles Jacob mi disse "lo metto a metà rassegna, così scoppierà come una bomba". E io: non credo proprio è tratto da un libro che conoscono tutti. Ma ebbe ragione lui», racconta al telefono dalla sua Toronto.
Pensa che oggi ci siano ancora film capaci di fare scandalo?
«Lo penso, lo spero: tutto è ancora possibile».
Lei è il capostipite del filone body horror, il corpo è stato al centro di molti suoi film. Che rapporto ha con il suo corpo a 75 anni?
«Il mio corpo è invecchiato».
E quindi?
«Quindi è diverso. Ma non è cambiato il fatto che sento che noi siamo i nostri corpi. Tutto quello che ho raccontato nei miei film dal Demone sotto la pelle in poi io lo penso ancora oggi. Invecchiare è un processo affascinante dal punto di vista filosofico ed emotivo: tu diventi i tuoi genitori, i tuoi nonni.
Qualcuno a cui guardavi e che ora sei tu. Ma questo non ha cambiato la comprensione e il sentimento di ciò che siamo. Noi siamo corpi, la nostra mente è un pezzo di corpo».
Lei ha iniziato a scrivere da ragazzino.
«Scrivevo comic books. Mio padre era scrittore e ho pensato che per me era una cosa naturale, un processo organico. Del resto ogni gioco è un’assegnazione di ruoli, le mie storie venivano da lì. Tutti i ragazzini possono essere creativi, oggi ancor di più perché si può fare un film col telefonino. Siamo tutti un po’ creativi, lo dimentichiamo sotto la pressione della meccanicità della vita quotidiana».
Che ragazzino era?
«Dolce, socievole, appassionato di natura, animali, scienza. Ma anche di musica, mia madre era una musicista. La casa era piena di libri e note. Avevo amici ma ero felice di stare da solo a leggere e pensare.
Facevo sport ma non ero competitivo».
Che musica ascoltava?
«Sono cresciuto negli anni 40 e 50 a Toronto, era l’epoca di Eisenhower e dell’America depressa, bianca, wasp. Il rock ha aperto uno squarcio anche da noi: ci ha fatto capire che c’era altra gente al di là della borghesia bianca. C’erano sesso, energia, ballo e tutto il resto.
Aretha Franklin aveva la mia età, per me era uno dei simboli di questa rivoluzione che è diventata ovvia negli anni Sessanta, ma che noi abbiamo sentito dieci anni prima in modo liberatorio ed eccitante».
L’America di oggi?
«Penso come tutti che Trump sia un disastro totale. Sono momenti difficili per gli americani e poiché gli Stati Uniti sono importanti nel mondo, non è un buon periodo per nessuno. Noi canadesi siamo vicini agli Usa, legati da un rapporto di odio e amore, come un fratello più grande e uno più giovane: quel che succede ci influenza in modo più immediato e diretto che nel resto del mondo».
Il suo rapporto con l’Europa^
«Nel 1965, da ragazzo, sono stato un anno in Europa: Copenhagen, Londra, Polonia, Grecia… è stato fantastico. Non avevo soldi, facevo ogni tipo di lavoretto. C’era ancora l’Urss, ricordo il primo viaggio a Berlino Est, i contatti con i giovani comunisti. E poi la Jugoslavia, che non esiste più. E il fatto che dovevi cambiare moneta ogni volta che cambiavi paese. Allora era una tradizione viaggiare verso l’Europa, la mia famiglia era molto legata a quella cultura. Poi negli anni 70 sono tornato nel sud della Francia e mi sono fermato un altro anno, esperienza fondamentale per la mia formazione. Ora sono ufficialmente cittadino onorario di Tourrettes-sur-Loup. Lì ho capito che avrei fatto il regista».
Perché?
«Ero curioso, amavo la tecnologia e la scienza. Sperimentavo. Cercavo uno sbocco alla mia creatività: ho suonato per tanti anni la chitarra classica e a un certo punto ho pensato di diventare un musicista professionista, come mia madre.
Era ovvio per me dover esprimere la creatività, meno chiaro capire attraverso quale mezzo».
Dell’Europa di oggi cosa pensa?
«Ne capisco le difficoltà, ma penso ancora che sia un’idea meravigliosa. E che si dimentichi il motivo per cui l’unione europea è stata creata, dopo il disastro della seconda guerra mondiale. Gli americani hanno la memoria corta, non hanno il senso della storia, non si curano che della loro. Trump è un uomo irrimediabilmente ignorante, non arriva a capire che Brexit e distruzione dell’Europa non sono una buona idea».
Nei suoi film c’è spesso un sottotesto politico.
«Gran parte dei miei film sono politici in quanto filosofici. La pratica della filosofia può diventare politica. Tutti i miei film affrontano la difficoltà delle società organizzate, la creazione di un governo civile, per questo penso che alla fine tutti i miei film siano sostanzialmente film politici».
Capaci di raccontare anche certe forme di populismo del presente.
«L’essere umano non si è troppo evoluto nei termini di approccio alla politica e quindi anche i miei primi film hanno a che vedere con quel che succede oggi».
Si è ritagliato anche una carriera da attore…
«Mi piace. Purtroppo ho dovuto rinunciare a un ruolo che mi aveva proposto Luca Guadagnino, non ci sono stati gli incastri giusti. Il suo cinema mi piace moltissimo, ci siamo incontrati e già un paio di volte abbiamo tentato di fare qualcosa insieme. Succederà».
Di recente lei ha dichiarato la fine del cinema, ma non del filmaking.
«È un discorso legato alla crisi e al dibattito nato a Cannes. Netflix ha avuto un impatto deflagrante nel mondo del cinema, ma è un fenomeno nuovo e molto interessante. Io guardo molte serie, alcune sono meravigliose, penso a Babylon Berlin per esempio. Netflix ha portato un processo di filmaking completamente diverso, cambiato la distribuzione. È un fenomeno reale e potente. Cannes avrebbe dovuto capire questa evoluzione, come peraltro ha già fatto Venezia: penso che l’approccio della Mostra sia più capace di guardare avanti».
Quindi vorrebbe girare una serie?
«Ci sto pensando. Non farò un altro film, penso che scriverò un altro romanzo. Ma quando guardo le serie penso che somigliano più a un romanzo che a un film e sì, ci sto pensando davvero».
Ha già in mente un tema?
«No, ma so che vorrei scriverla io e l’argomento lo scoprirò davanti a uno schermo bianco. Sarà qualcosa di molto personale, racconterà la mia esperienza di questi anni di vita».
Cosa sta leggendo?
«Vecchi romanzi di Philip Roth: quando è morto ho capito me ne mancavano alcuni e ora li sto recuperando».
Come si immagina tra dieci anni?
«L’unica cosa che posso dirle è che penso che sarò vivo».