la Repubblica, 21 agosto 2018
Boiardi, tangenti e panettoni il gorgo delle Partecipazioni statali
C’era una volta lo Stato padrone. Fine anni Cinquanta, un pomeriggio invernale all’aeroporto di Ciampino (Fiumicino ancora non esiste) sbarca una delegazione svedese venuta a studiare la formula dell’economia mista che ha rimesso miracolosamente in piedi l’Italia del dopoguerra. Non è la prima e non sarà l’ultima in quegli anni. Mezzo mondo ci invidia l’Iri di Giuseppe Petrilli, l’Eni di Enrico Mattei. L’età dell’innocenza delle Partecipazioni statali. Brevissima, un attimo in confrontato ai successivi decenni di inefficienze, sperperi e corruzione, l’era dei Boiardi. Quarant’anni dopo quell’atterraggio a Ciampino, una sera d’estate del 1992 il premier Giuliano Amato chiama in fretta e furia Piero Barucci, ministro del Tesoro, Giuseppe Guarino, ministro dell’Industria, e i giuristi Natalino Irti e “Duccio” Libonati.Il capo del governo è appena tornato da Bruxelles dove, in una riunione sulla siderurgia, i partner della Ue l’hanno messo all’angolo: basta con il sistema delle Partecipazioni statali, troppo comodo fare la concorrenza alle altre industrie europee con il paracadute degli aiuti pubblici. In una sola notte il governo scrive il decreto che trasforma Iri, Eni e Efim in spa.L’inizio della fine dello Stato padrone. “1992”, l’anno di Tangentopoli. Ma Mani Pulite è solo il colpo di grazia ad un sistema economico che aveva iniziato ad ammalarsi e poi a morire da metà degli anni Sessanta. Un’agonia costata decine di migliaia di miliardi delle vecchie lire in debito pubblico, un fardello che pesa ancora oggi nelle tasche degli italiani. L’Iri, per dire, ogni anno riceveva una media di 5000 miliardi di lire dallo Stato per pagare lo stipendio a quasi mezzo milione di lavoratori e per ripianare le perdite delle controllate."Industria di Stato gigante malato” titolava Repubblica, bilanci alla mano, già nel gennaio del 1986. Ma era nulla rispetto a quello che sarebbe accaduto di lì a poco tempo. Arriverà Enimont, la “madre di tutte le tangenti”, simbolo definitivo della fine della Prima Repubblica e dell’industria di Stato. Ma lo scabroso centauro che provò a fondere la chimica pubblica dell’Eni e quella privata di Montedison, rappresentò solo l’ultimo passo verso l’inevitabile baratro nel quale stava precipitando un intero mondo.Nel corpo del “gigante” era annidato da sempre un virus endemico del nostro Paese, quello dell’eterna provvisorietà: l’Iri, creato nei primi anni Trenta come strumento di intervento pubblico per riparare i danni della recessione mondiale del ’29, nasce come “ente provvisorio”.Ma dopo aver salvato le banche del Paese, rimane in vita perché non c’è ombra di capitali privati pronti a subentrare. Poi nel dopoguerra è la Dc a inventarsi l’economia mista, con lo Stato che manda avanti le aziende sotto l’ala dei tre grandi enti di controllo (Iri, Eni e Efim) e la compartecipazione degli imprenditori privati nelle società operative: la breve stagione virtuosa, appunto, lo Stato che ricostruisce l’industria (la siderurgia, il petrolchimico, la cantieristica…) e le infrastrutture nazionali (le autostrade, gli aeroporti, le telecomunicazioni…), i privati che garantiscono l’impronta di una gestione rigorosa. Dura poco.Dalla metà degli anni Sessanta si impone una malintesa missione pubblicistica delle partecipazioni statali che diventano la discarica delle aziende private in crisi. Lo schema è ripetitivo: l’imprenditore bussa alla politica per chiedere (e spesso pagare) un intervento di Iri, Eni o Efim (feudi incontrastati di Dc, Psi e degli altri partiti di governo) affinché rilevino un business ormai in perdita; la politica non si sottrae calcolando il ritorno in termini di voti garantito dal salvataggio di migliaia di posti di lavoro; i grandi gruppi delle Partecipazioni statali si ingrassano così a dismisura con panettoni, gelati, pomodori e qualsivoglia altra attività produttiva (memorabile la piscicoltura targata Efim). È lo spartito che accompagna, in un inarrestabile crescendo, gli anni Settanta e Ottanta. Fino all’ epifania di Tangentopoli. Certo, Enimont “madre di tutte le tangenti”, ma in fondo c’erano state tante “nonne” negli anni della Milano da bere.«Privatizzare significa trasferire in proprietà dei singoli cittadini un bene o un servizio pubblico», scriveva nel 1993 Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente del Consiglio, presentando i primi collocamenti in Borsa delle aziende di Stato -. L’obiettivo ambizioso è contribuire alla creazione di una democrazia economica più solida e, soprattutto, libera da abusi politici». L’ottimismo della volontà. Arriveranno le ondate di privatizzazioni, le “lenzuolate” di liberalizzazioni. I crac della Cirio, della Parmalat, le crisi bancarie, i record del debito pubblico. La Seconda Repubblica, la Terza Repubblica. L’eterna provvisorietà.