La Stampa, 21 agosto 2018
Desmond Morris, storie di ordinario Surrealismo
1950, The London Gallery. Sul manifesto, il nome di Desmond Morris (prima mostra personale) è stretto tra quello celeberrimo di Mirò, e quello, ormai sconosciuto, dell’oscuro Cyril Hamersma, epigono surrealista. Sì, lo zoologo autore del fortunatissimo La scimmia nuda e di La tribù del calcio, è pure pittore (oltre 2500 tele, si vanta lui, arzillo novantenne), ma questo si sapeva. Meno si sapeva della sua frequentazione, vivace ed estesa, con tutti, praticamente, i rappresentanti dell’arte surrealista, che racconta, tardivamente, in un avvincentissimo, pettegolissimo, ma anche intelligente e utile regesto di vite (più o molto meno) esemplari. Che s’intitola, vasarianamente, Le vite dei Surrealisti e che tempestivamente Johan & Levi manda in libreria, con significative foto-frontespizio dei vari artisti e calibrate opere scelte (prezzo contenuto, 30 euro, per oltre 250 ricche pagine).
Forse poteva anche chiamarsi «Amici surrealisti», in sintonia con la seducente copertina, tratta dal felice L’incontro degli amici di Max Ernst. In cui vedi lui stesso, elegantissimo, seduto sulle ginocchia d’un vecchio burbero barbuto (che è poi Dostoevskij), uno stentoreo Breton con svolazzante stola rossa, da ecclesiastico, Louis Aragon con boa constrictor intorno al corpo vezzoso, con ghette, De Chirico, una statua greca, e il suicida Crevel, a uno strano pianoforte-subbuteo, con giocatori salificati. Ma perché Raffaello tra loro (certo: è una Scuola d’Atene avanguardista) e soprattutto il romanziere dei Demoni? Lo scopriamo da questi deliziosi racconti-delazione, che non hanno peli sulla lingua (come la «scimmia nuda» di Morris: quel primate-uomo che si distingue dallo scimpanzé solo perché non è tutto ricoperto di peli. Null’altro).
Livoroso e categorico
Infatti, il «pontefice» Breton, «autocratico e magniloquente», livoroso e categorico, aveva decretato: basta con la psicologia, i grandi temi filosofici che farciscono noiosi romanzi, abbasso Dostoevskij! Ed ecco Ernst che glielo sbatte lì, in prima fila, il russo, incurante del «feroce dittatore» (sempre Morris) che a pochi passi sta sbracciandosi, a seminar precetti. Questa, la visione dell’etnologo dell’animale-artista. Dopo aver assolto il suo dovere («Breton è stata la figura più centrale e determinante nella storia del Surrealismo e merita per questo eterno rispetto»), giù con le legnate da teatro dei burattini. Schietto schietto: «Una volta chiarito questo, va anche detto che era un presuntuoso seccatore, un sessista convinto, un irriducibile omofobo e un subdolo ipocrita».
Non c’è male: del resto tutto il libro è attraversato da questo ordito percussivo, fatto di adesioni, ripensamenti, litigi, scomuniche, riprese d’amicizie calpestate, pamphlet crudelissimi e tardivi ripescaggi rituali. Quando ormai, dopo le scorticature della guerra e la diaspora seguita all’oppressione nazista, il Tardo Surrealismo non è tenuto in vita, secondo il nostro testimone-stetoscopio, che dal «patetico» e vano bocca a bocca d’alcuni sopravvissuti e dall’ormai «povero Breton». Ma deve esser detto chiaramente, con la stessa chiarezza «imparziale» di Morris (l’età forse lo aiuta a essere diretto): non sembra che sia qui obbligato, dal risentimento, a prendersi una rivalsa su questo guru stimato ma insoffribile, o su altri compagni di strada, non meno scomodi e stravaganti.
Eccentrici di genio
No, la sua lente scientifica d’entomologo e di etologo che studia i gesti e i costumi di questo serraglio d’eccentrici di genio racconta certi episodi, non proprio comuni, non tanto per giudicare o inzaccherare il movimento, né per dare risposte cliniche, ma per capire queste strane jene ridens. Per esempio Leonora Carrington, una delle mogli di Ernst, finita in manicomio, che si fa la doccia vestita in casa di amici, o si cosparge di senape i piedi, durante una cena ufficiale («Non era chiaro se le sue bizzarrie fossero eventi surrealisti o momenti di follia»). Oppure Sebastian Matta che, per sfidare l’odiato (ormai) Breton a fare altrettanto, si fa tatuare a fuoco il nome di Sade sul petto.
C’è anche Hemingway, che costringe Masson e Miró, amicissimi, a battersi in una partita di boxe, che dovrebbe esser brutale, ma finisce in farsa. E Dalí che per scioccare tutti, alla prima conferenza americana, che s’intitola «Paranoia, Preraffaelliti, Harpo Marx e altri fantasmi», si presenta in scena con due levrieri e una stecca da biliardo, e boccheggia in uno scafandro da palombaro che per miracolo non lo soffoca. Oppure si presenta al processo, intentatogli da Breton con l’accusa di connivenza con il franchismo, con sei pullover stratificati, il termometro in bocca, che lo fa farfugliare (nessuno capisce la sua difesa), ma ogni volta si toglie uno strato, minacciando di mostrarsi nudo. Lui, l’onanista inveterato, che ha denunciato pubblicamente di avercelo piccolissimo, così il puritano Breton rimane sconvolto e tutto finisce in una rablesiana risata.
Da buon scienziato, Desmond Morris registra, racconta con sapida icasticità anglosassone il loro stile contrastante, ma preferisce esercitarsi sulla vita: una caterva di amori a tre, omosessualità repressa, figli e mogli a mitraglia, trasgressioni sadiane e gelosie piccolo-borghesissime. E grande aggressività ovunque: con Gala ultraottantenne che fa nero l’occhio di Dalí, ridotto a lumaca, che però trova la forza di legnarla col bastone. Ora, poteva esistere un movimento «con due pittori diversi come Miró e Magritte?»: No, «era uno stile di vita, pura ribellione contro il sistema». Follia canalizzata.