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 2018  agosto 21 Martedì calendario

L’America riscopre il re dollaro

Donald Trump, il presidente più indisciplinato nella storia degli Usa, ha a sua disposizione l’arma economica più affidabile del pianeta: il dollaro. I banchieri di Wall Street lo chiamano «il paradosso-Trump»: il fenomeno bizzarro per cui i capricci via Twitter del Donald scombussolano e spaventano gli investitori ma la moneta americana spadroneggia sui mercati internazionali.
La Casa Bianca è fonte continua di litania di scandali, esternazioni e guerre commerciali (sia vere che minacciate) ma la risposta di governi, fondi e banche di mezzo mondo fino ad ora è stata sempre la stessa: comprare più dollari.Un paio di settimane fa, l’indice Ice, che misura la «forza» del dollaro contro le altre monete di punta, ha raggiunto il livello più alto in un anno. Tra gennaio e giugno, il «greenback» – «il bigliettone verde» nello slang americano – ha guadagnato più del 5% nei confronti dell’euro e quasi l’8% sullo yen giapponese – gli altri due pretendenti al trono di moneta-principe della finanza internazionale. Il caos in Turchia ha esacerbato queste tendenze, scatenando una fuga dei capitali dai Paesi emergenti verso la sicurezza del dollaro. 
È un effetto-domino che non si trova su nessun libro di testo economico. In teoria, le monete sono le cartine di tornasole della stabilità di un governo agli occhi degli investitori internazionali. Un Paese spaccato come gli Usa, con una leadership indecisa e spesso incoerente non dovrebbe instillare molta fiducia tra i signori e signore del denaro.Il dominio del «Re Dollaro» ha effetti significativi sia all’interno che all’esterno degli Stati Uniti perché conferisce a Trump super-poteri economici e indebolisce l’Europa, la Cina e i Paesi in via di sviluppo.
Va detto che una moneta forte non è proprio un letto di rose per un’economia: le esportazioni perdono, l’inflazione sale e le multinazionali soffrono. Ma se il dollaro rimane a questi livelli, i grandi flussi di capitale continueranno a dirigersi dalle parti di Trump, rinforzando la superpotenza americana e permettendo al presidente di fare la voce (ancora più) grossa con rivali quali la Cina e l’Unione europea.
Ovviamente, Trump ha detto che la performance del dollaro è merito suo. «Temo che la nostra moneta stia diventando troppo forte ed è, in parte colpa mia, perché la gente ha molta fiducia in me», ha detto al Wall Street Journal in aprile, con tipica umiltà. La realtà è molto diversa. Il motivo principale per la crescita del dollaro è che l’economia Usa è in grande spolvero. Nel secondo trimestre, gli Stati Uniti sono cresciuti del 4,1% – il ritmo più alto in quasi quattro anni. La zona-euro, per contro, è cresciuta al 2,1%. In macro-economia, questa è la differenza tra la maglia rosa e la maglia nera. E il dollaro gode anche del suo status di moneta sovranazionale. Nove su dieci transazioni sul mercato dei cambi mondiali sono in dollari e più del 60% di riserve delle banche centrali del Pianeta sono denominate in dollari. Senza il bigliettone, si può far poco nel commercio internazionale.
Occhio, però, alle conseguenze. Gli esportatori europei e cinesi esultano perché la debolezza delle rispettive monete rende le loro merci meno costose sulla piazza Usa. Ma la leadership cinese non resterà alla finestra per molto tempo, soprattutto se Trump insiste a pungolare Pechino con dazi e tariffe sul Made in China. E anche l’Europa non potrà tollerare a lungo l’idea che i capitali stranieri tanto necessari per stimolare la crescita vadano a finire al di là dell’Atlantico. 
Quando un giornalista ha chiesto al santone economico Alan Greenspan come avesse risposto alle spacconate di Trump sul dollaro forte, il vecchio banchiere centrale ha risposto: «Ho spento l’apparecchio acustico». L’Europa, la Cina e il resto dei sudditi del «Re Dollaro» non si possono permettere di ignorare le conseguenze dello strapotere della moneta Usa.