il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2018
Ritratto di Luciano Benetton
Luciano, primo di quattro fratelli angelicati, è il simbolo sempre allegro della nidiata Benetton: gli mancano le ali, in compenso ha gli occhi celesti, gli occhiali d’oro e i capelli in forma di aureola. Da mezzo secolo sorvola il suo patrimonio familiare, stimato in una dozzina di miliardi di dollari, 5 mila negozi nel mondo, 85 mila anime sottostanti, più i palazzi, l’editoria, gli Autogrill, le assicurazioni, i consigli di amministrazione, le finanziarie, e naturalmente le Autostrade gentilmente concesse. Possedendo nella lontana Patagonia la bellezza di 900 mila ettari di pascoli, montagne, laghi, sottratte agli indios, può essere considerato e descritto come una regione geografica a sé stante. Di quelle antiche, incise con l’inchiostro delle leggende. La sua – come quella dei Cesari – divisa est in partes tres: un terzo è fatta di lana pastello, un terzo di pubblicità multicolor, ma sempre su fondo bianco a dirne la purezza, un terzo di soldi, coloratissimi anche loro, grazie ai buoni sentimenti democratici. Almeno fino al disastro del ponte Morandi che ha virato tutta la fiaba in grigio pioggia, nero incazzatura nazionale e rosso azionario, dissolvendo quarant’anni di marketing con il sorriso incorporato. Il sorriso è volato via con gli stralli del ponte. E l’immagine della famiglia che festeggia i dividendi dei pedaggi autostradali a Cortina, 24 ore dopo il disastro, divorando il branzino di Ferragosto, è diventata più pesante delle macerie di calcestruzzo cascate sulle spalle della politica, dell’Italia e dei 43 morti ammazzati.
Ultimamente i suoi pullover non se la passavano tanto bene. I figli nati ricchi, come spesso accade ai fondatori nati poveri, non si sono dimostrati all’altezza, mandando in malora la lucentezza di un tempo. Al punto che il solito Luciano – passati da un pezzo gli ottant’anni – li ha sgomberati con un manrovescio a mezzo stampa: “Mentre gli altri ci imitavano – ha detto l’anno scorso in una intervista – la United Colors spegneva i suoi colori. Ci siamo sconfitti da soli. I negozi che erano pozzi di luce, sono diventati bui e tristi come quelli della Polonia comunista. E parlo di Milano, Roma, Parigi. Abbiamo chiuso in Sudamerica e negli Usa”. Peccato.
E dire che la loro storia è una epopea. Cominciata con un lutto in nero e con un maglione giallo. Il padre era emigrato negli Anni Trenta nella Libia fascistizzata, dove vendeva, comprava e noleggiava automobili. La moglie aspettava i suoi rientri tra il verde di Ponzano Veneto, Treviso, e intanto accudiva i quattro figli, Luciano, nato nel 1935, poi Giuliana, Gilberto e Carlo. Ai bordi finali della guerra, il padre si ammala di malaria e muore. Al primogenito tocca lasciare la scuola a 14 anni, inventarsi lavori, compreso quello di commesso in un negozio di tessuti, dove impara a guardarsi intorno con voglia di cambiare il molto grigio che vede. A spalancargli gli occhi ci pensa la sorella che per i suoi vent’anni gli confeziona a mano un maglione giallo che è come un lampo tra i suoi coetanei: “Lo volevano tutti. Capii che attirare l’attenzione, imporre una immagine, fare eco, poteva essere una strategia imprenditoriale vincente”. Ci pensa e ci prova. Vende la bicicletta da corsa. Con la sorella acquista una vecchia macchina tessitrice – “comprata come ferro vecchio, un tanto al chilo” – e apre il suo primo laboratorio di maglieria, poi il suo primo negozio “in un vicolo cieco di Belluno”. Racconterà: “I colori di Kandinskij e di Klee erano il nostro tatuaggio, la nostra intuizione guida”, contro il nero e il marrone necrofili di allora. “Vendevamo alle signore e ai ragazzi allo stesso prezzo: un maglione 3900 lire. Dunque il mercato dei giovani e degli adulti si era finalmente sovrapposto”.
Fast fashion, prezzi bassi e alta intensità identitaria. Benetton diventa uno stile, un carattere, una comunità. Inventa un processo produttivo in grado di assecondare i gusti del mercato, virando i colori in base alla richiesta. Moltiplica i punti vendita, scelti sempre nei centri storici, nelle vie più eleganti, confermandosi un lusso, ma alla portata di tutti, un piccolissimo segno di sovversivismo dello stile in lieta sintonia con la stagione della contestazione. Ma con la rassicurazione borghese incorporata alle vie dello shopping che trasformano la trasgressione in un innocuo allestimento per vetrinisti e vite standard. Che è poi la chiave di tutta la cavalcata consumista intrapresa dai Benetton, radiosi di immagini confezionate da quell’altro, inoffensivo fotografo, Oliviero Toscani, che maneggia tragedie epocali, come i migranti e l’Aids, sotto la stessa luce del girotondo festoso degli infanti, a dirci che sarà il colore a salvarci, mai la sostanza. Almeno nel mondo Benetton, dove volano i preservativi arcobaleno, la giovinezza è bianca, nera, ma soprattutto è per sempre, non esistono il razzismo, né le frontiere. E persino le infelici suore hanno diritto alla dolcezza di un bacio da un prete non pedofilo. Tutti uniti, democraticamente, contro i conflitti, contro le ingiustizie. Il che consente alla multinazionale Benetton di delocalizzare la forza lavoro verso gli inferni neocoloniali dell’India e del Bangladesh, di accaparrarsi le antiche terre dei contadini Mapuche in Patagonia, ricche di pascoli e dunque di lana, ricche di acqua dolce e di miniere, moltiplicando i profitti, ma senza mai scottarsi le dita e l’immagine. Meno che mai di rinunciare al pranzo di Ferragosto, “nell’antico fienile seicentesco di Cortina, finemente arredato”. E da lassù offrire gli avanzi a tutti i partiti dell’arco costituzionale con spiccioli da spendere nelle campagne elettorali – da Forza Italia al Centro sinistra, passando per la Lega e per Mastella – a conferma che tutti i colori non solo sono uniti, ma pure equivalenti.
È con un soprassalto che oggi andrebbe considerata la formula con cui hanno proliferato i negozi Benetton in tutto il mondo, quella del franchising, cioè del marchio in concessione, ma che a dirla con le parole di Luciano, significava “negozi a spese degli altri”. Il che, a pensarci bene, è più o meno quello che hanno fatto con le autostrade asfaltate a spese degli italiani, poi ottenute a debito bancario e ripagate con il credito dei pedaggi, cioè nessun investimento, nessun rischio, solo guadagni. Un capolavoro del capitalismo di relazione che da un secolo, nel paese delle caste, moltiplica i privilegi dei privilegiati, e avvelena tutto il resto. Compresa la stagione delle privatizzazioni governata negli anni Novanta da Romano Prodi, mai perfezionata dai controlli pubblici che pure erano previsti. E che nessun governo, nessun partito ha preteso, compresa la Lega di Salvini, accontentandosi di non offuscare quella luce di famiglia glamour che gentilmente investiva in pubblicità su tutti i media, fondazioni, intrecci societari, favori ricambiati, danzando in perpetuo in quella che i Situazionisti chiamavano “lo spettacolo integrato”, molto prima che Luciano si esibisse nudo, appena eletto senatore del partito repubblicano, anno 1992 (foto su 150 quotidiani e mille periodici di tutto il mondo) a modernizzare l’eterna pubertà del fantoccio Italia con lo scandalo più sciocco, ma ad alta risonanza comunicativa.
Probabile che presto comincerà l’offensiva della famiglia, per ora sepolta dall’indignazione, forse dalla vergona, a breve dalle inchieste giudiziarie. Luciano, sempre lui, ha già ingaggiato i migliori studi di comunicazione su piazza e una intera batteria di avvocati pronti alla battaglia. Offre un ponte nuovo all’Italia. Offre soldi alle vittime. E offre specialmente il silenzio al posto delle scuse. Che è proprio il contrario di quella rumorosa fratellanza colorata che, nel mondo prima del ponte crollato, prometteva di farci indossare. Rivelandola per quello che era, poco più di una quinta teatrale di uno spettacolo a pedaggio, anche lui malamente invecchiato per negligente manutenzione.