il Giornale, 21 agosto 2018
Ritratto di Pitigrilli
Godendo nel mettere alla berlina chiunque per rivendicare il proprio essere scrittore, ce l’aveva con tutti, a partire da se stesso: «Scrivere l’autobiografia è un mostrare in pubblico la nostra biancheria intima. Lo farò, sebbene io pensi che questo atto non è mai sincero, perché, per l’occasione, si indossa quella pulita».
Mai davvero sincero («Il piacere di mentire è più dispotico che il bisogno di verità»), irriverente e irregolare, scandaloso e beffardo, polemista e poliedrico, giornalista che detestava il giornalismo e romanziere che preferiva il mercato alla Letteratura, ebreo che non amava gli israeliti, e politicamente così ambiguo da riverberare tutte le sfumature dell’(anti)fascismo – dalla derisione del Duce alla delazione dei «compagni» di Giustizia e Libertà (il suo ruolo di spia dell’Ovra è ormai acclarato) – Pitigrilli, pseudonimo di Dino Segre (1893-1975), spezzettò la propria elusiva autobiografia in una sterminata opera narrativa. Una frase fulminante dentro una pagina di racconto. Un pensiero spettinato a margine di una descrizione d’ambiente («La bella descrizione: risorsa degli scrittori che non sanno come cominciare, non sanno come finire e non sanno come andare avanti»), una staffilata esistenziale nel mezzo di un dialogo, una riflessione amara sciolta in un azione tragicomica... È la forma breve che spesso contiene la verità più duratura.
Il suo successo letterario (e giornalistico: fondò la rivista Le grandi firme, per dirne una, e anche Crimen, il primo periodico italiano dedicato al genere giallo, per dirne due) non durò poco, in fondo: Pitigrilli – nome de plume che deriva da un tipo di fourrure adorata dalla madre, quella dello scoiattolo, petit-gris – fu uno dei romanzieri più venduti e popolari tra le due guerre. I suoi libri dai titoli eccentrici, l’umorismo spregiudicato, l’erotismo palpabile e la scrittura la più smaliziata possibile per l’epoca (ciò che allora si disse pornografia oggi però è solo qualcosa di un po’ spinto) erano di moda. Li avrete sentiti almeno citare, o no? Li pubblicava la gloriosa Sonzogno, ed erano bestseller. La cintura di castità (1921), Cocaina (1921), Oltraggio al pudore (1922), La Vergine a 18 carati (1924), I vegetariani dell’amore (1931), Dolicocefala bionda (1936)... Lettissimi, pur non amati dai critici (soltanto invidiosi, secondo il Nostro «Piti»). E fino qui il glorioso (per lui) Ventennio.
Poi, dopo l’8 settembre ’43, la fuga in Svizzera, il discredito per la collaborazione con la Polizia fascista (di cui ancora si discutono modi e tempi), il trasferimento in Argentina (dove per anni la sua firma fu in grande spolvero), quindi lo stupefacente percorso dall’ateismo allo spiritismo fino al cattolicesimo («Io credo all’esistenza di Dio nonostante tutte le stupidaggini che mi hanno raccontato per farmelo credere») e infine la morte – ormai dimenticato e invenduto – nella sua Torino, anno di scarsa grazia 1975.
Comunque, la sua vita è tutta qui. Negli aforismi (e non solo, c’è tutta una costellazione di sentenze, massime, paradossi e boutade con cui insaporiva stile e prosa) disseminati nella sua opera narrativa e di cronista di costume. Anna Antolisei ha compiuto un lavoro titanico, ha spulciato tutti gli scritti del vecchio «Piti», ossia trenta libri che furono tradotti in 15 lingue – da Mammiferi di lusso del 1920 a Nostra signora di MissTiff del ’74 – e ne ha tirato fuori una sontuosa antologia dal titolo Pitigrilli. Un aforista in ombra (Joker, pagg. 142, euro 20) a cui la stessa curatrice ha incollato una precisa prefazione (a proposito: «Prefazione: quella cosa che l’autore scrive dopo, l’editore pubblica prima, e il lettore non legge né prima n é dopo»).
E ce n’è – non può essere diversamente – per tutti, e per tutto. Imprevedibile e geniale (si legga il suo Dizionario antiballistico del ’53, con voci tipo: «AMMIRATORE: Un signore che scende dalla macchina per chiederti un autografo, ma non ti domanda se vuoi salire», oppure: «DIVIETO: Invenzioni dei governi per vendere dei permessi»), Pitigrilli non rispetta nessuno (neppure, a volte, va detto, la propria intelligenza). È misantropo quanto basta («Tutti coloro che non essendo niente di niente complicano l’esistenza al prossimo per sentirsi qualcuno»). Misogino oltre il dovuto («Più conosco le donne e più stimo i pederasti», ma anche «Le donne non hanno opinioni. Nell’abbracciare un uomo ne abbracciano anche le idee»). Antiscientista come solo un reazionario sa essere («I progressi della medicina consistono nel cambiare nome alle malattie»). Autoironico fino alla farsa («Una volta quando facevo la corte ad una donna temevo sempre che rifiutasse. Ora temo sempre che accetti»). Contro il partito dei giudici («Il crocificisso, che in ogni aula di tribunale rammenta ai giudici il più grande errore giudiziario registrato dalla Storia e li autorizza a commetterne altri»). Lucido pessimista («Bisognerebbe vivere due vite: la prima per imparare, la seconda per vivere»). Anticasta dal punto di vista intellettuale e ideologico («I letterati che fanno della politica sono uggiosi e incompetenti come i politici che fanno della letteratura», un pensiero del 1924), impietoso contro la propria categoria («La servitù del giornalismo consiste nell’arrivare alle 9 del mattino in un Paese sconosciuto e alle 12 spedire il primo articolo, dopo avere scambiato quattro chiacchiere col primo venuto e avere visto della città il tratto che va dalla stazione all’albergo», e siamo negli anni ’40). Inflessibilmente élitario («La moltitudine, quella bestia immonda e feroce»). Con un debole per i calembours («L’occasione fa l’uomo ladro e la donna refurtiva») e per i giochi di parole evoluti («Nel regno della Fantasia non c’è estradizione»). Ma su certa aforistica di Pitigrilli, fra il nonsense e la boutade, disse già abbastanza Uberto Eco...
Per il resto – e che resto... – si può condannare il Pitigrilli delatore. Si può sorvolare su certo Pitigrilli romanziere. Ma si può anche rileggere, eccome, il Pitigrilli anti-perbenista, spregiudicato e contro-luogocomunista. «Oggi gli uomini non contano più: contano gli elettori». Forse non era affidabilissimo, ecco. Ma certo non era banale.