L’Economia, 20 agosto 2018
Le catastrofi che cambiano il capitalismo
Bophal, India. Nel 1984, quaranta tonnellate di gas letale diffuse nell’aria per il cattivo funzionamento di una valvola della fabbrica di fertilizzanti dell’americana Union Carbide provocano una strage e avvelenano, per decenni, interi villaggi: 3.800 morti, 16 mila feriti e intossicati, 600 mila persone esposte al gas, bambini che ancora oggi, 34 anni dopo, continuano a nascere con malformazioni a un ritmo dieci volte superiore al resto del Paese.
Dacca, Bangladesh. Il 24 aprile del 2013 in un sobborgo della capitale crolla un gigantesco edificio multifunzionale chiamato Rana Plaza. I piani inferiori, occupati da una banca, da uno shopping center e da appartamenti residenziali, sono stati già sgomberati: la costruzione appariva da tempo pericolante. Ma nei tre piani superiori, occupati da cinque fabbriche di vestiti che lavorano, direttamente o attraverso mediatori, per conto di alcuni dei più celebri marchi del mondo, da Calvin Klein a H&M, da Benetton a Tommy Hilfiger, la produzione continua a pieno regime. Fino a quando migliaia di operai non sprofondano coi loro pesantissimi macchinari che non dovevano essere installati in cima a un edificio costruito per impieghi residenziali, non industriali. Dalle macerie vengono estratti 1.127 cadaveri.
Torino, Italia. È la notte tra il 5 e 6 dicembre 2007 quando, nello stabilimento siderurgico ThyssenKrupp di Torino una cascata di olio bollente investe 7 operai. Uno muore subito, gli altri cesseranno di vivere nei giorni successivi, per le gravi ustioni. Lo stabilimento, originariamente appartenuto alla Acciai Speciali Terni, società pubblica dell’Iri, era stato privatizzato e venduto al gigante tedesco nel 1994.
Mississippi delta del fiume, Louisiana. Al largo della costa, nel Golfo del Messico, il 20 aprile 2010 esplode la Deepwater Horizon, una piattaforma petrolifera della Bp, gestita dal contractor Transocean. L’incidente provoca 11 morti, 17 feriti e la più grave catastrofe ecologica della storia americana: per 87 giorni i tubi di perforazione, spezzati, continuano a riversare in mare milioni di barili di greggio.
La lista delle tragedie non dovute a cause naturali, ma a errori, sottovalutazione dei rischi o mancanza di scrupoli da parte di aziende decise a massimizzare i profitti anche a scapito della sicurezza di dipendenti e utenti dei loro servizi, è molto lunga e non conosce confini.
AccuseCome per il viadotto crollato a Genova, a finire sotto accusa sono, in primo luogo, le società titolari degli stabilimenti o delle concessioni, come in questo caso il gruppo Atlantia, controllato dalla famiglia Benetton. Ma spesso emergono anche pesanti corresponsabilità di organi di governo – ministeri o authority indipendenti – che non hanno eseguito con la dovuta accuratezza i controlli previsti dalla legge. O che, come è avvenuto a Bophal, ma anche in altre circostanze – ad esempio nel crollo del ponte autostradale di Minneapolis sul fiume Mississippi avvenuto 11 anni fa – pur essendo consapevoli dei rischi che si stavano correndo, hanno rinunciato a bloccare la produzione in questi stabilimenti o il transito sulle infrastrutture con problemi di stabilità per non aggravare i problemi occupazionali, in India, e quelli di congestione del traffico nel caso della metropoli del Minnesota.
Ogni caso ha le sue caratteristiche particolari – a Bophal le colpe della Union Carbide emersero in modo schiacciante mentre il disastro della petroliera Exxon Valdez, schiantatasi sugli scogli dell’Alaska nel 1989, fu sicuramente causato dall’irresponsabilità del suo comandante, Joseph Hazelwood – ma nella maggior parte dei casi si riscontrano due patologie: la ricerca di massimizzare i profitti anche a scapito della sicurezza e la scarsa incisività dei controlli a tutela di lavoratori e utenti. Alle quali, quasi sempre, se ne aggiunge una terza: la scarsa disponibilità della società che ha causato la tragedia a prendere atto della lezione e a cambiare rotta.
Lo si è visto nel caso della ThyssenKrupp che ha difeso il suo diritto di non investire (anche in sicurezza) in un impianto che era considerato a fine vita e che, infatti, fu definitivamente chiuso pochi mesi dopo la tragedia. Ma la dinamica della tragedia ben più grave e dalle conseguenze addirittura mostruose di Bophal, in fondo non fu molto diversa: gemello di uno stabilimento costruito in America, nell’Illinois, l’impianto indiano della Union Carbide era di certo meno sicuro e aveva molti più problemi di manutenzione. Ma era anche uno stabilimento che, vista la scarsa domanda di pesticidi, stava per essere smontato e trasferito in un altro Paese. Quando, dopo un lungo stop, venne momentaneamente riattivata la produzione, fu rimessa in moto solo una parte dell’impianto, ma non i suoi sistemi di sicurezza. Cosa della quale, pare, le autorità erano a conoscenza.
RisarcimentiUnion Carbide ha pagato, ma solo in parte, i danni alle vittime che, 34 anni dopo,sono ancora in causa con una società che non esiste più: nel 2001 è stata assorbita dal gigante Dow Chemical. Qualcosa è cambiato, invece, nel caso della Bp e, soprattutto, in quello della produzione di vestiario in Bangladesh dove molte delle società occidentali in qualche modo coinvolte dal disastro di Rana Plaza, a partire dalla britannica Primark, dalla canadese Joe Fresh e dalla Inditex che lavora per conto di Zara, hanno subito avviato un programma di indennizzi alle famiglie delle vittime e hanno accettato le nuove norme varate dal governo locale: piena libertà di organizzare sindacati (in precedenza era richiesta l’autorizzazione del datore di lavoro) e nuove norme di sicurezza con l’istituzione di un corpo di ispettori indipendenti col potere di chiudergli stabilimenti non in regola.
Quanto al caso del Golfo del Messico, il mutamento di rotta imposto allora dall’amministrazione Obama è stato smantellato alcuni mesi fa da Donald Trump che ha cancellato le nuove norme di sicurezza per l’esplorazione petrolifera off-shore introdotte dopo il disastro della Deepwater Horizon. Ma da allora la Bp non solo ha cambiato i suoi comportamenti, ma ha cambiato tutto, a partire dai suoi vertici. Conseguenze profonde anche sulla sua struttura finanziaria: se a suo tempo la Exxon, per il disastro della Valdez, fu condannata dalla Corte Suprema Usa a pagare una muta di 507 milioni di dollari, pari al fatturato realizzato dal gruppo in 12 ore, la Bp fin qui ha speso oltre 60 miliardi di dollari tra indennizzi, multe e attività di disinquinamento dei 1.800 chilometri di costa colpita dalla «marea nera». E non è ancora finita.