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 2018  agosto 20 Lunedì calendario

Spararla grossa, il vizio della politica

Spararla grossa, più grossa che si può, è ormai una tradizione della politica italiana. Quest’ultima generazione di governanti non ne ha certo il monopolio. Prima di loro hanno esercitato quest’arte Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, dal «milione di posti di lavoro» del 1994 al «meno tasse per tutti» del 2008, alle slide con il pesce rosso del 2014 nelle quali un giovane premier venuto da Firenze prometteva di pagare tutti gli arretrati dello Stato in un batter d’occhio (sono ancora insoluti per decine di miliardi). Dunque niente di nuovo, quando un esponente di governo si arma di faccia tosta e la spara. 
Q ui però si sta passando da forme più o meno artigianali, a una vera e propria industria della sparata come modello per stare sul mercato della politica. Le frasi in libertà di Matteo Salvini contro la Ue per il crollo del ponte di Genova («colpa dell’austerità») o di Luigi Di Maio sulla presunta elusione fiscale di Atlantia in Lussemburgo sono solo gli ultimi esempi di affermazioni del tutto disancorate dalla realtà, ma abituali da parte dei politici. Bisognerebbe istituire un registro della sparata suddiviso per autore e argomento. Sarebbe un’enorme banca dati e il motivo è evidente: millantare funziona. Questo modello presenta alti rendimenti per chi lo applica, spesso grazie anche a un vasto (quanto opaco) sostegno organizzato sui social network. 
L’industria della sparata implica tuttavia un problema: presenta costi per i cittadini, quantificabili in almeno quattro miliardi di tasse in più o spesa sociale in meno nel 2019 solo per effetto dell’aumento degli interessi sul debito che le fanfaronate hanno già provocato.
Del resto per un politico oggi la tentazione è forte. È ormai dimostrato che cercare di smontare analiticamente le sparate fa il gioco di chi le lancia, perché mantiene l’attenzione sul quel tema e di solito tutto finisce in un polverone nel quale il pubblico (specie se segue attraverso brandelli di frasi sui social network) fatica a distinguere il vero dal falso. Un esempio classico è stato la campagna per la Brexit quando la campagna del Leave – i favorevoli al divorzio dall’Unione Europea – dissero che se avessero vinto loro ci sarebbero stati 350 milioni di sterline in più per il sistema sanitario di Londra. Infondato. Ma chi cercò di confutare non fece che conferire altra eco a una promessa poi dimostratasi determinante per l’esito del referendum. Altro esempio: l’idea di Donald Trump di costruire un muro con il Messico e farlo pagare ai messicani. Anche lì, cercare di ribattere non fece che regalare altra pubblicità a Trump stesso. 
Il «muro messicano» e l’«assegno da 350 milioni» di Di Maio e Salvini – le loro sparate decisive – naturalmente riguardano i conti pubblici. Entrambi sanno che smontare una smargiassata costa più tempo e energia che lanciarla nell’etere, e raggiunge meno lettori e ascoltatori. Di Maio e Salvini hanno assorbito la legge della politica al tempo di Facebook: una frase che parli alla pancia delle persone e non al cervello («un assegno di cittadinanza per tutti», «aliquote al 15% per tutti», «fuori mezzo milione di clandestini») diventa molto più virale. Milioni di elettori sono raggiunti in poche ore a costo zero. 
Il problema è che i politici hanno chiesto il voto su un programma che costa fra 108 e 125 miliardi di euro, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, e ora non sanno come mantenere. Rischiano di dover scegliere tra perdere la faccia e destabilizzare finanziariamente il Paese. Le frasi in libertà loro e dei loro alleati hanno già portato un aumento dello spread che nel 2019 costerà appunto quattro miliardi agli italiani, oltre a un’incertezza che frena consumi e investimenti. I maggiori oneri da interessi e la minore crescita attesa (di cui solo in parte ha colpa la politica italiana) hanno già spostato la rotta a cui tende il deficit pubblico per l’anno prossimo dall’1,6% al 2,4% del Pil. Prima ancora di fare i conti con le promesse elettorali. 
La via di fuga abituale in questi casi è quella che vediamo già: dare la colpa al «nemico esterno», una congiura congiunta fra Europa e mercati finanziari. Persino una voce raziocinante come quella del leghista Giancarlo Giorgetti vi dà spago. Ma si tratta di un’altra fantasia ed è facile capire perché. Oggi chi investe centomila euro in Btp a dieci anni incasserebbe entro il 2028 12.800 euro in più che se investisse in analoghi titoli di Lisbona, 16.700 euro in più che se investisse in titoli di Madrid, 28.100 euro in più che se investisse in Bund tedeschi. Se i risparmiatori o i gestori professionali rinunciano a queste opportunità non è per un’autolesionistica «congiura», ma perché non giudicano credibili i piani dell’Italia dunque non si fidano.
Ci sono però altre lezioni dai casi di Brexit e Trump. Coloro che diffusero la balla dei 350 milioni di sterline – Boris Johnson, David Davis, Michael Gove, Nigel Farage – si sono ritirati non sapendo come gestirne le conseguenze. Trump invece nel primo anno è stato circondato da elementi dell’establishment (Rex Tillerson, Gary Cohn, Reince Priebus) messi lì per limitare l’impatto delle sue sparate. Qualcosa di simile è successo in Italia con ministri come Giovanni Tria, Enzo Moavero o Elisabetta Trenta.
Nel caso di Trump, gli elementi dell’establishment sono stati fatti fuori nel secondo anno e Trump ha virato verso il radicalismo. Nel caso di Brexit, l’intero progetto sembra ormai una nave alla deriva. Cosa bisogna dedurne per l’Italia? Che siamo più fragili degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, dunque il governo non può permettersi di «licenziare» i moderati al proprio interno. Ma il fatto che Brexit resti popolare fra gli elettori anche dopo la caduta delle false promesse indica una rotta possibile per Di Maio e Salvini. Potrebbero entrambi ritirare la parte incredibile delle loro promesse senza perdere consensi. Se invece scegliessero di continuare a spararle grosse, il costo per gli italiani salirebbe sempre di più. E alla fine anche per loro due.