Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2018
Sicurezza o utili? Dove finisce l’incasso dei gestori delle Autostrade
Dal 2008 a tutto il 2016 i gestori autostradali hanno speso in manutenzione ordinaria poco più di sei miliardi di euro e in investimenti 15 miliardi. Pochi o tanti? Per i loro bilanci, è stato un onere più che sopportabile: per tutto questo tempo, agli azionisti del settore è rimasta in tasca mediamente una quota del valore aggiunto distribuibile (Vaid) compresa tra il 7 e il 9 per cento. A investimenti e accantonamenti è andata una quota ben superiore: circa il 30% annuo. Ma più di tutti hanno perso lo Stato e le istituzioni in genere: fra il 35 e il 38 per cento. Per la sicurezza di chi viaggia, salita in primo piano dopo il crollo di Genova di martedì scorso, il discorso è più complesso: i numeri non dicono tutto.
I numeri sono quelli contabilizzati ufficialmente dal controllore pubblico, la direzione generale Vigilanza concessioni autostradali (Dgvca) del ministero delle Infrastrutture, nella sua relazione sull’attività svolta nel 2016.
Stato e istituzioni dominano non solo per le imposte e gli oneri sociali, ma anche per i canoni che le concessionarie autostradali devono versare come quota sui pedaggi incassati. Questa va all’Anas e per anni è stata importante per i suoi bilanci, prima che s’intraprendesse la strada verso l’autonomia finanziaria dell’azienda e la sua uscita dal perimetro del pubblico.
Quanto agli azionisti, un approfondimento merita Autostrade per l’Italia, il maggior gestore (ha circa metà della rete nazionale) al centro delle polemiche dopo il crollo di Genova. Nella grafica qui a destra colpisce il dato della distribuzione del valore aggiunto di appena l’1% per investimenti e accantonamenti. Ma il dato riguarda il solo 2016 e il ministero non dispone di una serie storica. Inoltre, come ha ricostruito Il Sole 24 Ore venerdì scorso, nei suoi 16 anni di storia la società ha destinato buona parte degli utili (2,1 miliardi) agli azionisti, con i dividendi: in sostanza 130 milioni di euro l’anno. Al socio di riferimento, la famiglia Benetton, è andato in media il 30% dei dividendi, anche se non tutto è stato distribuito (ci sono ad esempio le quote per le riserve). In modo molto sommario si può dire che ai Benetton siano andati circa 600 milioni. A fronte di investimenti per 18,6 miliardi: 13,5 in nuove opere, ampliamenti e migliorie, 5 in manutenzione.
Le retribuzioni dei dipendenti si situano tra il 15 e il 17 per cento. E in alcuni casi si parla di un numero rilevante di persone: i lavoratori di Autostrade per l’Italia sono 10mila; per loro hanno iniziato a esprimere preoccupazione i sindacati, alla luce della procedura che dovrebbe portare a togliere la concessione alla società dopo i fatti di Genova.
Quanto a investimenti e manutenzioni, la spesa effettiva è spesso inferiore a quella contabilizzata. La differenza è dovuta al meccanismo degli appalti in house, più volte bersaglio della Ue e oggetto di modifiche normative, a conferma della sua nevralgicità. In sostanza, le concessionarie autostradali preferiscono appaltare i lavori a società del loro stesso gruppo, le quali poi li subappaltano con ribassi consistenti. Anche il 30% e più (molto di più, nel caso delle progettazioni). La cifra che viene contabilizzata è quella uscita dalle casse della concessionaria, che però resta nell’ambito dello stesso gruppo. Questo, tra l’altro, aiuta a rispettare in pieno gli obiettivi di spesa previsti dai piani economico finanziari allegati alle convenzioni con lo Stato, come emerge dalla grafica qui a sinistra. L’attuazione degli investimenti (per nuove costruzioni e ampliamenti), invece, è ben più indietro (69,4%), non solo perché più onerosa ma anche perché ci sono ostacoli autorizzativi maggiori.
I gestori hanno sempre chiesto (e non di rado ottenuto) di tenere alta la quota percentuale dei lavori assegnabili in house, affermando che si perderebbero posti di lavoro nelle società coinvolte e che un appalto che resta all’interno del gruppo ha procedura più snella e abbatte il rischio di contenziosi. Ciò, di per sé, è vero. Ma a volte il prezzo è affidare i lavori a piccole imprese che li eseguono con budget ridotti all’osso e devono rinunciare ad utilizzare abbastanza personale qualificato o ad impiegare i migliori materiali possibili. Qualcuno lamenta anche che certi lavori si limitano a un lifting di facciata, lasciando inalterato il degrado strutturale. C’è un risvolto anche per i professionisti, di solito giovani ingegneri, che a volte accettano incarichi mal pagati per certificare lavori di cui può accadere che dubitino gli stessi esecutori.