La Stampa, 20 agosto 2018
Austostrade fu venduta per entrare nell’euro
Premessa: non è andata certo come la racconta Di Maio, che descrive una sorta di Spectre in cui potentati politici ed economici si scambiano (si scambiavano, fino a prima del «cambiamento») favori, interessi e forse anche soldi. Ma non è stato neppure lo tsunami che si vorrebbe far credere; semmai, aveva ragione Longanesi quando diceva che «la rivoluzione in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti».
Dopo la Prima Repubblica
A rileggerla, la storia delle privatizzazioni all’italiana degli ultimi venticinque anni comincia e finisce con una tragedia: l’Enimont del processo-simbolo di Mani pulite e della caduta della Prima Repubblica, e i due suicidi di Raul Gardini, patron della Montedison privatizzata e di Gabriele Cagliari, amministratore delegato dell’Eni pubblica, come lapide sul tentativo di sostituire con i privati lo Stato imprenditore. Era il 1993, e per un po’ non se ne parlerà più. Fino al ‘96 e alla prima vittoria elettorale di Prodi e del centrosinistra. A settembre, al vertice europeo di Valencia che inaugura il rush finale della costruzione del sistema della moneta unica, il Professore capisce che l’Italia è fuori. Non conta essere tra i Paesi fondatori dell’Unione: pesano i numeri inaccettabili del bilancio statale. Le richieste della Commissione, in accordo tra il ministro del Bilancio italiano Andreatta e il commissario Van Miert, sono quasi le stesse che dovrà fronteggiare nel 2011 Berlusconi, costretto poco dopo a gettare la spugna. Servono drastiche riduzioni del debito pubblico e della spesa corrente, liberalizzazione del mercato del lavoro, più flessibilità, più competitività, maggior capacità produttiva. E, appunto, privatizzazioni. Uno Stato imprenditore, che gestisce metà dell’economia italiana, non potrà mai entrare a far parte dell’eurozona.
Lo Stato vende
Urgente, necessitata e con un orizzonte minimo per essere realizzata, la campagna per le privatizzazioni riparte così. Esclusi Eni e Enel (solo parzialmente messi sul mercato), e dopo le banche (due grandi, Intesa e Unicredit, una terza in via di sviluppo, Bpm, ma anche una serie di guai di cui l’Antonveneta e il Monte dei Paschi di Siena rappresentano la punta dell’iceberg, per non parlare delle crisi più recenti di Banca Etruria, CariChieti), si arriva ai due esempi-chiave: Telecom e Autostrade. La vicenda dell’ex-monopolista di Stato delle telecomunicazioni è la più emblematica. Siamo nel 1997 e appare chiaro che in Italia non c’è nessuno, ma proprio nessuno in grado di candidarsi ad acquisire la maggioranza dell’ex-Sip e a scommettere sulla sua gestione. L’idea di Prodi di costruire public companies con elettorato diffuso e management indipendente, si scontra con la realtà. Non ci sono fondi di investimento; né imprenditori interessati, o stranieri disposti. Con Ciampi, ministro dell’Economia, il Professore prova a convincere Agnelli e la Fiat, che rappresentano ancora l’altra metà – privata – del sistema industriale: ma ne ricevono una svogliata disponibilità ad acquisire, in consorzio con altri, poco più del 6 per cento del capitale, il cosiddetto «nocciolino duro», del quale solo lo 0,6 fa riferimento a Torino, in cambio della guida del gruppo. Sembrava impossibile l’inizio dello scongelamento del grande ghiacciaio pubblico, per tutti un boccone difficile da ingoiare; invece il governo vende a quell’altra sorta di Stato nello Stato – la Fiat -, contro cui era stato costruito, il sistema delle Partecipazioni statali. È «la madre di tutte le privatizzazioni», sebbene non si tratti di una vera liberalizzazione, ma della sostituzione di un monopolio con un altro.
Il caso Colaninno
Durerà poco e niente: due anni dopo, nel 1999, Prodi è caduto, c’è D’Alema al suo posto e sotto i suoi occhi arriva la grande Opa da centomila miliardi di Colaninno e dei bresciani. Di quel passaggio, solo il primo di una serie tutti uguali, con un “leverage” a debito scaricato sulla stessa azienda telefonica, resterà l’epitaffio di Guido Rossi, il grande avvocato milanese che adombra il sospetto di un intervento diretto (ovviamente smentito dall’interessato), di D’Alema in favore di Colaninno: «Palazzo Chigi è l’unica banca d’affari in cui non si parla inglese». La vera questione, però, resta sospesa: Colaninno ha vinto perché è stato audace o perché D’Alema gli ha dato una mano, in funzione anti-Prodi, anti-Agnelli e anti-establishment? È lo stesso interrogativo che si pone, due anni dopo, nel 2001, quando Colaninno esce da Telecom, che per lui è stato un ottimo affare, e sotto l’egida di Berlusconi nell’azienda fa il suo ingresso, con la Pirelli, Tronchetti Provera: ci perderà, rischiando la galera in un processo da cui alla fine uscirà assolto, e sarà costretto ad arrendersi al ritorno di Prodi al governo nel 2006 e al suo disegno di costringere la Telecom a restituire allo Stato la rete telefonica: per errore, questa è la spiegazione, inclusa nove anni prima nel pacchetto della prima privatizzazione. Nel frattempo il figlio di Colaninno s’è avvicinato al Pd e presto sarà eletto parlamentare con Bersani nel 2013. Anche qui: le fortune e le disgrazie dei primi due gestori privati degli ex-telefoni di Stato in che misura hanno risentito dei capovolgimenti politici?
Il nemico francese
E per fare un salto ai giorni nostri, quando della Telecom s’è impadronito il finanziere francese Bollorè, vicino un tempo e adesso avversario del Cavaliere, Renzi e Gentiloni gli dichiarano guerra – riportando lo Stato nelle telecomunicazioni con una nuova società pubblica per competere su mercato della fibra ottica – perché Bolloré non era loro amico, o per vero interesse strategico? E Bollorè, licenziando a sorpresa nel 2017, al prezzo di una liquidazione milionaria dopo soli sedici mesi di servizio, l’amministratore delegato Cattaneo dopo una serie di sue dure dichiarazioni contro il governo, lo fece per cercare un appeasement con il centrosinistra, o perché voleva cambiare mano?
I dubbi sulle strade
Domande come queste si ripropongono pari pari sul caso Autostrade, con l’aggravante che, a differenza di quella di Telecom, la gestione della rete si è rivelata assai redditizia per i Benetton, che ne hanno assunto il controllo a partire dal 1999, e stando ad accordi successivi fino al 2042. I Benetton ottennero quel che volevano – anche la distratta carenza di controlli ministeriali – grazie ai buoni rapporti con Prodi e tutti i suoi successori di centrosinistra, o perché erano stati gli unici a farsi avanti al momento opportuno? E l’essere diventati in dieci anni tra i maggiori gestori di autostrade nel mondo, può aiutarli, dopo Genova, a certe condizioni, a essere perdonati, o la scure di Di Maio ormai è calata? Si vedrà: la storia delle privatizzazioni all’italiana è piena di ombre e ancora tutta da scrivere, ma l’idea di far tornare lo Stato al posto degli «oligarchi» nostrani non sta in piedi. Se al costo del reddito di cittadinanza e al taglio delle tasse si aggiunge il prezzo miliardario del ritorno alla gestione diretta dei servizi pubblici privatizzati, infatti, la bancarotta per l’Italia è assicurata.