la Repubblica, 20 agosto 2018
L’impossibilità di vigilare sui Benetton
In tutto il mondo sviluppato vige un principio: quando si privatizza un servizio pubblico ci dev’essere chi impedisce che un monopolio pubblico non si trasformi in un monopolio privato. Il compito è affidato di solito a quelle che si definiscono autorità indipendenti. Accade ovunque, anche in Italia. Ma qui con una sola eccezione, ed è quella delle autostrade. Eppure fra tutti i servizi pubblici questo è il più delicato e sensibile, per una ragione intuitiva: si tratta di un monopolio naturale, come la rete elettrica. Il che già avrebbe sconsigliato la cessione a un singolo soggetto: e infatti il caso italiano è rarissimo. Ma proprio la particolarità di questa privatizzazione avrebbe imposto la creazione di un controllore agguerrito. Non che non ci avessero pensato. C’era ancora il governo di Lamberto Dini (1995) quando in parlamento arrivò un disegno di legge che istituiva le autorità indipendenti per l’energia, le comunicazioni e i trasporti. Le lobby non si fecero scoraggiare e si misero al lavoro. Risultato: l’autorità dei trasporti venne accantonata. Circolò la storia che le Ferrovie si erano date da fare, ma nell’ombra c’erano anche i concessionari autostradali pubblici e privati. Trascorsero quattro anni e il governo di Massimo D’Alema vendette la quota di controllo della società pubblica alla famiglia Benetton. Con un regalino incorporato gentilmente predisposto dal precedente governo di Romano Prodi: la proroga di ben vent’anni della scadenza della concessione, dal 2018 al 2038. Quarant’anni di gestione assicurata. A quel punto l’authority sarebbe stata non necessaria, ma essenziale. Invece furono colti da una singolare amnesia il governo D’Alema, quello successivo di Giuliano Amato, ben quattro esecutivi di Silvio Berlusconi e anche il Prodi bis. Tutti, nessuno escluso. E questo fu il secondo regalo a chi aveva comprato le Autostrade. I controlli erano rimasti nelle mani dell’Anas e del ministero, cioè della politica: il ventre molle. Un diluvio di profitti, le tariffe che aumentavano a dismisura alla faccia del cosiddetto price cap, meccanismo che prevede la riduzione dei prezzi dei servizi pubblici privatizzati, rigorosamente applicato nei paesi anglosassoni. Finché un bel giorno non è arrivato Mario Monti. Il nuovo premier era stato commissario europeo alla concorrenza e conosceva la materia: a Bruxelles aveva fatto vedere i sorci verdi a un certo Bill Gates, figuriamoci se poteva farsi impressionare dai concessionari autostradali. E l’autorità per i trasporti vide finalmente la luce. Ma quando la legge uscì dal parlamento, saltò fuori che dalle competenze dell’Authority erano escluse le concessioni in essere. La nuova autorità non poteva metterci becco, non aveva voce in capitolo sulle tariffe, né sulle altre prescrizioni di natura economica. Un terzo meraviglioso regalo alla lobby dei concessionari, che era riuscita a deviare in corner il pericoloso tiro in porta. Con omaggio supplementare, consistente nell’esclusione dalle competenze dell’authority anche dei servizi aeroportuali di Milano, Venezia e Fiumicino: questi ultimi, controllati dal medesimo proprietario delle Autostrade. E le tariffe continuarono a salire, e salire, e salire. Da quando la società Autostrade è stata privatizzata, sono cresciute di oltre il 70 per cento a fronte di una inflazione di circa il 40 per cento. Con utili alle stelle e il titolo in borsa che galoppava, grazie a una concessione tecnicamente assurda che prevede per il concessionario la garanzia del profitto e nessun rischio d’impresa. Senza che un solo governo dopo quello sia mai intervenuto in seguito per sanare l’indecenza di un’autorità dei trasporti che di fatto non ha alcun potere sulle concessioni autostradali. Una circostanza che la dice lunga sulla sudditanza della politica rispetto a una lobby così potente. Al tempo di Enrico Letta si provvide unicamente a nominare i vertici, secondo le logiche consuete. Presidente: Andrea Camanzi, già consigliere dell’autorità di vigilanza sui contratti pubblici, era stato strettissimo collaboratore di Roberto Colaninno al tempo della scalata a Telecom Italia. Consiglieri: l’ex onorevole di Forza Italia Mario Valducci e Barbara Marinali, dirigente del ministero delle Infrastrutture con competenze sulle tratte autostradali. Per cinque anni, tre sceriffi con la pistola scarica. Insomma, uno sconcio inaccettabile. E ce n’è abbastanza perché un governo che abbia davvero a cuore la sicurezza e gli interessi della collettività gli metta fine. Basta una semplice norma di poche righe per dare all’autorità i poteri che non ha mai avuto e aprire una fase nuova. Sarebbe la prima cosa concreta da fare in un Paese moderno e civile, invece di tante sterili parole.