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 2018  agosto 19 Domenica calendario

VITA, PALLONE E CAMPIONI NEI RICORDI DI EUGENIO FASCETTI: “IL MIO RAMMARICO PIU' GRANDE? LAZIO-VARESE, STAGIONE 1981-82. IO ALLENAVO IL VARESE E COME DS AVEVO BEPPE MAROTTA. DOPO 20 MINUTI ERAVAMO 2-0 MA PERDEMMO 3-2. NOI ERAVAMO LANCIATI PER LA SERIE A, ACCADDERO COSE STRANE E MI FERMO QUI… - SE CASSANO AVESSE AVUTO LA TESTA DI ANTONIO CONTE SAREBBE STATO MOSTRUOSO - ALLEGRI E’ IL PIU’ BRAVO DI TUTTI - DOPO LA GUERRA, ANCHE NEL PALLONE SERPEGGIAVA UNA DERIVA SOCIALISTA E QUANDO ANDAMMO IN UNGHERIA…" -

Ha fatto esordire in serie A giovani di grande talento e di grande tenacia; ha conquistato uno scudetto con la Juventus e un campionato di serie B col Messina. La Lazio gli deve davvero tanto, forse tutto. È stato capace di essere amato a Bari e a Lecce, che portò in serie A per la prima volta. Un viaggio in Ungheria negli anni Cinquanta gli tolse sul nascere ogni dubbio, la sinistra non era fatta per lui. Ha inventato la teoria del casino organizzato, e un termine che a suo dire gli garba molto è «scorbutico».

Ecco, Eugenio Fascetti è un tipo scorbutico. Da sempre. E quello che più lo rende fiero è di aver fatto tanto marciapiede, come dice lui: «Si, ne ho fatto tanto, in tutte, dico tutte le categorie, fino alla serie A».

Partiamo dalla stagione 1960-61: vince il suo primo e unico scudetto. «Mi allenavo col Bologna, mi chiamarono in sede e mi dissero che andavo alla Juventus. Mi ritrovai in una squadra stellare, giocatori come Mora, Boniperti, Charles, Sivori. Un grande gruppo. Ricordo la grande umiltà e la grande disponibilità proprio di Sivori e Charles. Uno spogliatoio unito, si usciva sempre tutti insieme. Peccato, perché avessi avuto una possibilità in più ci sarei potuto stare in quella Juve».

Poi un' altra chiamata in sede e si ritrovò a Messina. «E lì soffrii due volte. Non volevo andarci e alla fine non volevo ripartire. Messina è bellissima».

Due anni a Savona, parentesi Lazio, poi San Benedettese, Viareggio e il sipario sul calcio giocato. «Avevo già capito che avrei allenato. Mi ritrovai a Latina. Quella è stata una parentesi importantissima della mia vita da allenatore. Allenavo la Fulgorcavi, a Borgo Piave, nel centro sportivo di una fabbrica. C'era tutto, attrezzature d'avanguardia. Ma anche disciplina, ordine. E c'erano tanti giovani.

Lì imparai a gestire un gruppo, a capire le diverse personalità dei ragazzi. Furono anni di marciapiede, anni formativi. Poi, finito di allenare, c'era tutto il litorale, che è molto bello, a Sud di Roma. Ci si ritrovava spesso ad Anzio, al ristorante del papà di un giocatore, il signor Alceste, un grande personaggio, persona di altri tempi. Quante belle chiacchierate di calcio. Il figliolo Gino era bravino, ed erano tutti tifosi incalliti della Lazio. Li ritrovai qualche anno dopo».

Entriamo nella leggenda. Stagione 1986-87, la Lazio arriva a 8 minuti dalla serie C. Poi il gol di Fiorini sancisce la famosa salvezza del -9. «Annata pazzesca. Potevamo andare in serie A, rischiammo la C. Fino a quel Lazio-Vicenza. Ricordo la prima parata del loro portiere, capii subito che sarebbe stata durissima. Fece parate assurde. Solo la vittoria c' avrebbe salvato dalla fine. Poi all' 82' Fiorini anticipa di un nulla il difensore su un tiro di Podavini e segna. Il boato dello Stadio Olimpico è un qualcosa di indimenticabile. Mai più sentito uno stadio creare un tuono del genere. Credo sia stato il gol più importante degli ultimi 40 anni della storia della Lazio».

Due anni prima aveva portato il Lecce per la prima volta in serie A. «Altra grandissima emozione. C'era un gruppo di giovani fortissimi».

Fece esordire Antonio Conte in serie A. «Che testa, che tenacia. Una furia. Oggi lo vedo troppo incazzoso, ma lui è così. È uno determinante e lascia un' impronta netta nelle squadre che allena. Non si diventa capitani della Juventus per caso».

Poi gli anni a Bari e un altro Antonio. «Cassano, avesse avuto la testa di Conte, sarebbe uscito fuori un giocatore mostruoso. A livello di tecnica è un genio, un genio però che ha fatto molto meno di quello che avrebbe potuto fare. Giocatori come lui ne ho visti pochi. Purtroppo poi cedeva a certe scenate».

Come quella con il signor Garrone, ex presidente della Sampdoria? «Esatto. Penso che la cosa peggiore che si possa fare è offendere una persona anziana. Alla lunga l' ha pagata».

Digressione. Il calcio l'ha salvata dal comunismo? «Mamma mia. Nel dopoguerra, anche nel pallone serpeggiava una deriva socialista, definiamola così. Poi andammo per delle amichevoli in Ungheria. Era il 1956. A sentir parlare certi santoni sembrava che di là ci fosse il paradiso terrestre, ma io tutto sto benessere mica lo vidi. Ricordo solo fame, miseria e rovine. Come arrivammo all' aeroporto, senza chiederci permesso e con modi che non sto qui a spiegare, ci aprirono le valigie e controllarono tutto. Bene, avevo già capito tutto. Rimanemmo chiusi una settimana in albergo. Poi tornai in Italia e parlavano ancora di comunismo. Ma io avevo visto con i miei occhi».

In sintesi non le garba la sinistra? «Senza tanti giri di parole, no. Per l' amor di Dio! Anzi l' unica cosa che mi piace a sinistra è la colonnina della classifica di calcio. Sono nato libero e voglio essere libero. Tutti lo devono essere, anche di lavorare».

Si riferisce a qualcuno in particolare? «Mi riferisco a Salvini e Di Maio. Hanno vinto e allora li facciano lavorare in santa pace. Abbiamo fatto lavorare di tutto in questi ultimi anni in Italia. Poi alla fine del mandato si vedrà, saranno valutati».

Stagione 1981-82, il suo direttore sportivo si chiamava Beppe Marotta. «A Varese. Aveva 20 anni e veniva al campo. Piano piano ha dimostrato una grande serietà. Anche lui ha fatto marciapiede sotto la scuola dell' avvocato Colantuoni, presidente storico del Varese. Ho solo un rammarico, quel Lazio-Varese».

Alla penultima giornata. Dopo 20 minuti vincevate 2-0. «Ho un tarlo dentro da allora. Perdemmo 3-2. Noi eravamo lanciati per la serie A, accaddero cose strane e mi fermo qui perché non ho certezze. Eravamo forti, andavamo 20 chilometri più veloci di tutti».

La Juventus ha preso Cristiano Ronaldo. «Beati loro. Ronaldo è un grandissimo e inoltre mi sembra anche una persona positiva. Mai dato problemi. È il migliore e non si può lamentare di madre natura, ma quello che ha fatto dopo è tutto merito suo, si allena da grandissimo professionista».

Le sarebbe piaciuto allenarlo? «Dico di sì, ma con tutto il rispetto, se devo sognare, mi sarebbe piaciuto allenare Pelè. Unico, da fermo saltava in maniera impressionante. Un fisico micidiale. Mentre in Italia avrei tanto voluto allenare il più grande di tutti i tempi: Valentino Mazzola, il papà di Sandro.

Ovvio che si sia tutti concentrati sul presente, ma alla mia età ne ho visti tanti. Schiaffino, Cruijff, Beckenbauer, Rivera, Mazzola. Mi sarebbe piaciuto vederli allenare con i sistemi di oggi. Penso a Di Stefano, il primo falso nueve: faceva gol, difendeva e ripartiva. Oppure Puskas, che ti tradiva con quella sua pancetta, palla sul sinistro e gol. Non c' era scampo».

A proposito di allenatori, qual è lo scorbutico di oggi che la intriga? «Allegri: il migliore di tutti. Bravo a gestire i tanti campioni che gli mettono a disposizione, e soprattutto bravo in campo. Azzecca alla perfezione i cambi. E guardate che non è fortuna. Il bello è che sento che qualcuno lo critica. Pazzesco, con tutto quello che ha vinto».

Stagione 2003-2004, la sua ultima cavalcata in panchina in un calcio radicalmente cambiato. In meglio o in peggio? «Da Pisa a Como, in 40 anni, ne ho viste davvero tante. Dico che per certi aspetti si è migliorato. Noi all' epoca non avevamo nessuna protezione, nessuna assicurazione e dobbiamo ringraziare Bulgarelli, Rivera, Campana perché hanno dato un volto ai giocatori. In altre cose si è peggiorato.

Quando vedo un terzino che crossa e la palla va in gradinata, allora non va. Si deve tornare a insegnare calcio, si deve dare del lei al pallone. Quando ero a Bologna o a Pisa, gli allenatori ci lasciavano delle ore a battere i calci d' angolo. Dovrebbero tornare maestri come Oberdan Ussello o Ercole Rabitti. Oppure preparatori come Enrico Arcelli: cambiò il calcio. Si iniziò a correre con intelligenza».