la Repubblica, 18 agosto 2018
«Haka, una recita». Il rugby si spacca sulla danza mito
«Kia rite! Kia rite!», ascoltatemi: nelle vene del guerriero che invita i suoi compagni neri alla battaglia, deve scorrere sangue maori. Oggi a Sydney con l’Australia, esordio del Rugby Championship (il Quattro Nazioni), sarà Thomas Tekanapu Rawakata “TJ” Perenara ad avere l’onore di guidare la haka degli All Blacks prima del calcio d’inizio.
Una danza che è adrenalina pura, spettacolo. Ma soprattutto cultura. Qualcuno vorrebbe che i neozelandesi la smettessero, sostiene che non se ne può più: «Ormai giocano 14 partite l’anno, e sembra sempre più una recita». La polemica è stata scatenata dal libro di un giornalista irlandese, Peter Bills: in The Jersey, la maglia, l’autore sostiene di rivelare «i segreti della squadra più vincente della storia». Gli All Blacks, appunto. Tra gli ingredienti della pozione magica dovrebbe esserci la haka, un rituale introdotto per la prima volta su di un campo da rugby dal New Zealand Native Team, durante la tournée britannica: era il 1888, è passato un secolo e mezzo. «Era il nostro biglietto da visita, il modo per raccontare le nostre radici. Che orgoglio. La facevamo solo nelle partite giocate all’estero, la tradizione è andata avanti cent’anni. Poi coi primi mondiali ci siamo messi ad eseguirla anche negli incontri casalinghi: e col tempo ha finito per perdere il suo ‘mana’, la forza sovrannaturale».
Le parole di Kees Meeuws, vecchio pilone dei Tutti Neri, hanno lasciato a bocca aperta i connazionali. Bills ha poi citato una leggenda, sir Colin Meads, che prima di morire aveva espresso qualche perplessità. Il mental coach neozelandese, Gilbert Enoka, ha quindi rivelato che i ragazzi cominciano ad essere “haka-stufi”. Apriti cielo. Piovono pietre dal Galles, dall’Inghilterra, dall’Irlanda: “Anche noi ci siamo stancati”; “Vogliono intimidirci con la scusa della tradizione”; “Danzano e si scaldano i muscoli, mentre noi restiamo al freddo e perdiamo concentrazione”. Sir John Kirwan, che la maglia dei Blacks l’ha indossata 62 volte e ci ha pure vinto quei primi mondiali del 1987, risponde da Auckland con un sorriso. «Sono solo gli avversari, quelli stufi: stufi delle nostre vittorie. Nessuno potrà mai impedirci di eseguire la haka prima di una partita. È la storia della nostra nazione. Del rugby».
L’ex ct azzurro attacca: «A novembre la Nuova Zelanda affronterà l’Italia a Roma: come pensate ci resterebbero i 72.000 dell’Olimpico privati della haka?». Sì, però: un tempo li vedevi ogni tanto ed era una meraviglia. Ora con tutti quei match giocati – i primi piani tv mentre urlano e si battono il petto – si è persa un po’ di genuina emozione. O no? «Sciocchezze. A essere protagonisti o spettatori sono comunque brividi». E poi eseguirla è una questione di rispetto, spiega. «Nei confronti della mia famiglia, del mio passato. Delle radici maori della terra che rappresento.
Dell’avversario, che deve guardarci negli occhi ed accettare la sfida: è un modo per dire che siamo pronti alla guerra sportiva, e che – proprio perché lo temiamo – faremo di tutto per batterlo». Il pensiero va a quella volta a Marsiglia, esordio della Coppa del Mondo 2007: seguendo uno sciagurato consiglio del ct Berbizier, gli azzurri si strinsero in cerchio e voltarono loro le spalle. Il gesto scatenò la rabbia orgogliosa dei Blacks. Che ci rifilarono 5 mete nei primi 20 minuti: finì 76-14, che batosta.