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 2018  agosto 18 Sabato calendario

Etiopia, gli irriducibili gerarchi nell’ambasciata italiana

I bagagli erano già pronti davanti all’uscio. Due attempati signori, euforici e vestiti di tutto punto, erano pronti per abbandonare, dopo 27 anni, la villetta all’interno dell’ambasciata italiana in Etiopia. Ma la grazia che attendevano alla fine non è arrivata. Erano i primi di agosto e i due fedelissimi gerarchi dell’efferato e spietato regime di Hailè Mariàm Menghistu che ha tenuto in pugno l’Etiopia dal 1974 al 1991 sono ancora lì. “I noti ospiti”, così definiti sin dall’inizio nei carteggi tra la nostra ambasciata e il governo italiano, si chiamano Berhanu Bayeh, 82 anni, e Addis Tedla, 73. Ex ministro degli Esteri il primo, Capo di Stato maggiore il secondo, a fianco del Negus rosso per tutti gli anni del regime di ispirazione marxista, sono stati tra i fondatori del Derg, il braccio militare del colonnello, responsabile dei due anni del “Terrore rosso": 500mila morti, secondo Amnesty International.
La loro storia riemerge da un libro dell’ex ambasciatore ad Addis Abeba, Giuseppe Mistretta (2014-2017), e dal suo vice Giuliano Fragnito, che si intitola proprio così: “I noti ospiti”.In cima a una delle colline di Addis Abeba, nel quartiere di Bella/Kebenna, sventola il nostro tricolore. C’è chi dice che sia l’ambasciata più bella d’Africa.
Nei 14 ettari di parco c’è una villetta, ormai fatiscente: tre stanze, salotto, bagno e cucina. Qui vivono Bayeh e Tedla, da 27 anni e 4 mesi, riempiti da 3 passeggiate al giorno, qualche giornale, un po’ di televisione e zuffe, riferiscono testimoni dell’ambasciata. Il loro look è inesorabilmente lo stesso, come le loro idee: giacca e cravatta. Vestiti così, passeggiano a passo marziale tra i viali alberati dell’ambasciata. Irriducibili e mai piegati alle richieste, né dei nostri ministri degli Esteri né del governo di Meles Zenawi, succeduto a Menghistu. Il 26 maggio 1991, con le forze ribelli alle porte della capitale, e il dittatore in fuga da 5 giorni diretto in Zimbabwe dall’amico Robert Mugabe, Bayeh fa il suo ingresso, grazie alla determinazione del suo autista che si inventa un presunto appuntamento con l’ambasciatore italiano. Il giorno dopo, altri nove funzionari del Derg, tra cui Addis Tedla, bussano alla nostra porta. Ed entrano.
Zenawi ne chiede l’immediato rilascio, piazzando addirittura un carrarmato davanti alle porte del complesso. Sette scelgono volontariamente di uscire, uno si suicida. I “noti ospiti” non mollano, si blindano nella villetta e minacciano il suicidio se consegnati.
L’allora ambasciatore Sergio Angeletti non aveva dubbi: «Per la Costituzione italiana e le sentenze della Corte Costituzionale, non possono essere consegnate persone accusate di crimini per cui in Etiopia è prevista la pena di morte». Un gesto umanitario, scrive Mistretta, che il governo italiano non ha più messo in discussione. Bayeh è l’ideologo e la vera mente del gruppo di reduci del regime. È autore di un memoriale, scritto in aramaico, di centinaia di pagine e mai pubblicato, e di tutte le lettere al Governo italiano in cui chiede asilo polito, mai concesso o il processo presso un tribunale italiano. Negli anni trascorsi dal 1991, i dirigenti del regime hanno chiesto perdono e ammesso le proprio colpe. Bayeh e Tedla no.
Quali colpe? Errori, hanno detto negli anni. «Noi non siamo responsabili. Abbiamo sì commesso qualche errore. Ma non ci pentiamo perché lo abbiamo fatto per la nostra Patria». E ancora: «Non riconosciamo la legittimità di questo tribunale e da qui non usciamo se non con un lasciapassare per l’estradizione».
Il nuovo corso della politica etiopica con il premier Abiy Ahmed potrebbe portare un’amnistia, in un generale clima di riconciliazione. E i due sono vecchi e malandati. Ma è proprio il portavoce di Abiy che cancella la speranza. Fitsum Arega dice a Repubblica: «Per quanto ne sappia io, non c’è alcuna intenzione del governo di concedere l’amnistia a persone responsabili di genocidio e crimini contro l’umanità».