La Stampa, 18 agosto 2018
Senza Stato, ma con 30 mila miliziani: l’Isis resiste e torna a far paura
Un esercito di 30 mila combattenti, metà in Siria e metà in Iraq, meno volontari stranieri, una leadership decimata ma ancora operativa, e una volontà di resistere intatta. È il ritratto dell’Isis a metà 2018, a un anno dalla caduta di Mosul e di Raqqa e da quella che sembrava la fine imminente del Califfato. I numeri sono forniti da un rapporto dell’Onu che avverte: «Nella sua forma ridotta, nascosta, l’Isis può continuare a sopravvivere per molto tempo ancora».
Una striscia nel deserto
È soprattutto il numero di trentamila jihadisti a fare impressione. Alla metà del 2015, all’apice della potenza dello Stato islamico, la Cia stimava i suoi combattenti in circa 31 mila. La cifra certo peccava per difetto. I servizi russi e iracheni sostenevano che erano in realtà almeno 150 mila. Ma allora il califfo Abu Bakr al-Baghdadi controllava un territorio grande come l’Italia, con 10 milioni di abitanti, e aveva ricevuto l’apporto di 40-60 mila foreign fighters. Ora gli restano soltanto lembi di deserto e una stretta striscia lungo l’Eufrate al confine siro-iracheno, dove sfrutta ancora alcuni pozzi di petrolio.
Senza più un suo «Stato», l’Isis è riuscito a sopravvivere ed è tornato a colpire, con sempre maggiore pericolosità. Ha disperso la maggior dei suoi militanti nelle zone remote nel Sud-Est della Siria, lungo il confine con la Giordania, fra le sabbie e dell’Anbar e nelle zone montagnose nelle province di Kirkuk, Diyala e Salahudin in Iraq.
È in grado di condurre attacchi devastanti come quello a Sweida, in Siria, di un mese fa: 250 vittime e trenta ostaggi, donne e bambini, portati via. Damasco ha dovuto rivedere la sua strategia e dirottare mezzi e truppe verso il Jabal Druze, la montagna dei drusi vicino a Sweida, una zona impervia, con crateri di antichi vulcani che gli islamisti hanno trasformato in fortezze.
La battaglia è ancora in corso, mentre da quasi un anno i curdi cercano di fare sloggiare i jihadisti, senza successo, dalle ultime roccaforti nella provincia di Deir ez-Zour. Il ritorno dell’Isis preoccupa l’Intelligence occidentale, che teme che la Mesopotamia ridiventi un santuario da dove dirigere attacchi in Occidente, ma soprattutto l’Iraq. Ieri gli F-16 di Baghdad hanno colpito in profondità nel territorio siriano, con il consenso di Damasco, e distrutto una “sala operativa” che serviva a progettare “attacchi e attentati in Iraq”. I raid, i più massicci finora in questo tipo di operazioni congiunte, servono anche a cementare l’intesa fra Siria e Iraq, con migliaia di miliziani sciiti iracheni che affiancano l’esercito siriano nel controllo della zona di confine.
I curdi indeboliti
Le tensioni fra Russia, Turchia e Stati Uniti d’America hanno invece reso meno efficace l’azione dei curdi, distratti dalle operazioni turche al confine settentrionale. Questo spiega in parte la resistenza degli islamisti sull’Eufrate, dove resta il grosso dei combattenti stranieri, dai due ai tremila. Il loro annientamento è indispensabile per evitare metastasi. Parte dei foreign fighter sopravvissuti al crollo del Califfato fra il 2016 e il 2017 si sono trasferiti nel Sinai, in Libia e soprattutto in Afghanistan, dove ci sono «embrioni» di nuove entità territoriali. Il rischio di un Isis 2.0 è molto alto, avverte l’Onu.