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 2018  agosto 18 Sabato calendario

La Borsa nelle mani dei fondi: in 13 blue chip comandano loro

Nell’ultima stagione assembleare in tredici delle blue chip di Piazza Affari, i fondi presenti erano maggioranza assoluta. E in cinque di queste società addirittura maggioranza dei due terzi, decisiva per far passare nelle assemblee straordinarie operazioni quali la conversione delle risparmio, le fusioni o la modifica dello statuto. In Anima, Atlantia, Enel, Eni, Fineco, Moncler, Terna, Tim (considerando anche Elliott e Cdp) più della metà del capitale presente era in mano a investitori istituzionali. In Azimut, Bpm, Intesa-SanPaolo, Prysmian, UniCredit, il mercato aveva più del 66,6%. Nelle due public company addirittura il capitale presente in mano ai fondi superava il 51% del capitale totale: 58,5% Prysmian e 51,01% UniCredit. In altre quattro – Generali, Leonardo, Snam e Ubi – la percentuale superava comunque il 40%. Dall’elenco manca Mediobanca, che tiene l’assemblea di bilancio il 28 ottobre, ed è accreditata di avere investitori istituzionali per circa il 55% del capitale.
«Negli ultimi quattro anni si è registrata una costante crescita del peso delle minoranze in assemblea, mentre in parallelo è diminuita la quota degli azionisti di riferimento», nota il proxy solicitor Morrow Sodali, che – nelle assemblee 2018 delle società dell’Ftse Mib – ha calcolato nel 35,6% la parte riferibile all’azionista di riferimento e al 31,4% quella riferibile alle minoranze di mercato, rispetto a percentuali che erano, rispettivamente, del 39% e 26% nel 2015. 
L’anno prossimo l’avanzata dei fondi potrebbe far segnare il sorpasso dal momento che la direttiva shareholder rights ne sollecita la partecipazione e il voto in assemblea, secondo il principio “comply or explain”: se non ti adegui devi spiegare perché.
«Mediamente su 500 miliardi di capitalizzazione in mani istituzionali votano in assemblea 150 miliardi – spiega Dario Trevisan, titolare dello studio legale che tradizionalmente rappresenta i fondi nelle adunanze societarie –. Ciò significa che ci sono ancora margini di crescita. Gli investitori istituzionali “tradizionali” sono comunque già oggi una presenza costante, ma acquisendo il mercato sempre più peso nel voto si creano le condizioni perché emergano i fondi attivisti in grado di coagulare il consenso nelle loro campagne».
Nessuna società, in effetti, può dirsi del tutto al riparo dalle iniziative di questa categoria di fondi – di solito “contestatori” – se si considera per esempio che Amber, antesignano degli attivisti in Italia, da anni ha ingaggiato una battaglia in una società “blindata” come Parmalat, controllata per oltre l’80% dalla famiglia Besnier, portando a casa anche qualche successo non scontato. 
In Italia, la stagione assembleare di quest’anno è però stata movimentata in particolare dal fondo Usa Elliott che ha ribaltato il consiglio Telecom, imponendo al primo socio, Vivendi, una maggioranza di indipendenti e – su altra scala dimensionale – dal fondo tedesco Shareholder Value Management che, al contrario, in Retelit l’ha avuta vinta sulla cordata “attivista” del finanziere Raffaele Mincione nel sostenere la continuità del management.
A livello globale – secondo un rapporto sul tema messo a punto da Lazard – i primi due trimestri di quest’anno sono stati i più attivi da sempre, con un record di 145 campagne lanciate nei confronti di 136 società quotate, mobilitando risorse per un totale di 40,1 miliardi di dollari. Protagonista anche sulla scena internazionale il fondo di Paul Singer che da solo ha rappresentato il 12% dell’operatività dell’intera categoria degli attivisti. In 119 casi gli attivisti hanno conquistato posti nel board (con un incremento del 75% rispetto al 2017), per il 45% riferiti alle iniziative di soli tre player: Starboard, Elliott e Icahn. Contrariamente alla vulgata, però, nell’85% dei casi l’ingresso degli attivisti nei consigli di amministrazione delle società messe nel mirino è stato frutto di un accordo. In un terzo dei casi i fondi hanno presentato liste di maggioranza, cercando di rimpiazzare almeno la metà dei vecchi amministratori.
Se il rimpasto del board è stato quest’anno il primo obiettivo degli attivisti (37% dei casi), diffusa (34% dei casi) è stata la tendenza a interventi motivati da obiettivi di M&A o breakup. A seguire contestazioni sulle strategie societarie (25%), motivi legati all’allocazione o al ritorno del capitale (23%), oppure alla governance (22%). Solo nel 6% dei casi l’azione degli attivisti è stata rivolta contro il management per cambiarlo.
Sui target europei è stato destinato quasi un quarto delle risorse mobilitate: anche qui la parte del Leone è di Elliott con dieci offensive, pari al 30% di tutte le campagne lanciate nel Vecchio Continente.