Si può davvero scommettere sulla libertà o non sarebbe più giusto lottare per essa?
«La libertà è la sostanza della persona. Essa si accompagna al rischio per sé e per gli altri e quindi esige sempre una scommessa. È ovvio quindi che si debba lottare per la libertà».
Ci si sente liberi soprattutto nella stagione dell’infanzia. Come è stata la sua?
«Una vita povera di cose ma ricchissima di affetti e di amici. Con i miei abitavo in meno di 35 metri quadrati. Ma la vera casa era tutto il paese, dal molo con i pescatori alle scorribande nei frutteti, al cortile dell’oratorio, alla piazza. La mia infanzia è stata una grande scuola di realismo».
Immagino che le sia servita nella sua lunga carriera spirituale. Quando ha sentito la prima volta il desiderio di abbracciare la Chiesa?
«Ricevetti una proposta in quarta elementare di entrare in un ordine missionario. Ero molto giovane e perfino stupito da quella offerta. Ma suonò quasi immediatamente l’impeto di allargare l’orizzonte della mia esistenza. Avevo quotidianamente davanti agli occhi la fede di mia madre: solida e semplice. Così intimamente vicina da farmi intuire che la vita è un compito».
Tanta serietà in un bambino di cosa l’ha privata?
«Di nulla, avevo l’essenziale che per me era tutto. A volte, soprattutto a scuola, sentivo una certa emarginazione. Le medie che feci a Lecco erano frequentate soprattutto da figli della borghesia».
La disparità di censo era un problema?
«Mi diede la forza di reagire. Fu come una sfida all’esistente che incanalò positivamente le mie energie. Se oggi mi guardo indietro vedo la compresenza del gusto della sfida e di una certa timidezza, con un pizzico di ansietà».
Suo padre camionista desiderava un figlio ingegnere. Lei si iscrive al Politecnico di Milano. Ma poi abbandona. Come ha vissuto questa disubbidienza verso il padre?
«Non ci fu niente di traumatico, perché si era reso evidente quale fosse il mio vero volto, cioè la mia vocazione. Fu dunque semplicemente il maturare della libertà rispetto al progetto di mio padre. E lui lo ha capito».
Si iscrive alla Cattolica. Alla scienza e alla tecnica preferisce la riflessione sul divino. Non ritiene che nell’età della secolarizzazione Dio sia stato sostituito dall’algoritmo?
«È ovvio per me che l’algoritmo si porrà sempre su un piano totalmente diverso rispetto a Dio. Ai miei occhi Dio in persona custodisce il destino di ogni uomo e di tutta la famiglia umana. L’algoritmo è un fattore statistico di straordinaria utilità, non privo di gravi rischi. Ma non potrà mai raggiungere il livello ultimo del vero di cui ognuno di noi ha sete».
Si può avere sete di tante cose e tante possono essere le verità, almeno in un mondo come il nostro. Se non avesse fatto il prete cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Forse avrei fatto il politico, come mio fratello. Ma è solo una labile immagine. Per grazia di Dio sono contento della scelta compiuta».
Nella sua scelta quanto ha contato la presenza di un maestro come don Giussani?
«Se non l’avessi incontrato non sarei probabilmente quello che sono. È stato come un padre con un figlio».
Si dice che fosse brusco e irascibile.
«Un carattere che non gli ha impedito di essere disponibile a dialogare con tutti».
Per certi versi una figura accostabile alla sua fu quella di don Milani. Quasi che nel loro impegno abbiano rappresentato due volti simili ma opposti della Chiesa.
«Don Milani fu un acuto e coraggioso educatore con un notevole seguito. Don Giussani, che il cardinal Biffi chiamava il don Bosco del ventesimo secolo, ha generato un popolo».
Lei ha studiato a Friburgo con Hans Urs von Balthasar, uno tra gli uomini più dotti del Novecento. Cosa le ha insegnato la sua teologia?
«La decisività della bellezza e della santità, anche per far teologia. Fu indubbiamente uno spirito libero che ha sempre scelto di stare fuori dall’ufficialità degli onori e del potere».
La sua teologia fu la risposta cattolica a quella prospettata da Karl Barth. Che giudizio dà di quest’ultimo?
«Entrambi abitavano a Basilea. Barth, soprattutto con la sua dogmatica ecclesiale, rappresenta un punto di non ritorno per tutto il pensiero cristiano. A lui si deve il netto superamento del razionalismo biblico e della teologia positivistica».
Cosa pensa del suo commento alla "Lettera ai Romani"?
«Ha dentro alcune cose straordinarie. Formidabile, ad esempio, l’affermazione che tutti gli uomini compresi i santi altro non sono che "un grido verso Dio"; o quella che "tutto è grazia". Ma la sottovalutazione della storia e della religione fu un suo limite».
Nei suoi anni all’università di Friburgo, risuonava ancora il nome di Heidegger?
«Ero nella Friburgo svizzera, ma il nome di Heidegger risuonava ampiamente anche lì».
Davvero come dice Heidegger solo un Dio potrà salvarci?
«Questa sua affermazione resta sempre drammaticamente valida. Il problema è chi fosse Dio per lui».
Cosa pensa di Romano Guardini che fu, se non allievo, lettore acuto di Heidegger?
«È uno dei grandi pensatori cristiani di tutti i tempi. Lo mostra la sua profetica attualità. La concentrazione del cristianesimo in Gesù Cristo, il Signore; la sua tesi sull’opposizione polare; il giudizio sul moderno; la concezione del potere; l’urgenza che la Chiesa " rinasca dalle anime": sono elementi decisivi che ci possono aiutare per attraversare il travaglio in cui versa il nostro tempo».
Nei suoi anni universitari si ammala gravemente, al punto da dover interrompere gli studi per circa un anno. La malattia è anche un modo per mettere la fede alla prova?
«Lo è con tutta evidenza. Non sopporto la facile mistica del dolore. Nel tempo in cui fui malato mi colpì il passaggio dell’Imitazione di Cristo: "La malattia può far perdere la fede"».
Che cosa sono debolezza e obbedienza?
«La debolezza è espressione dell’umana finitudine, di cui Gesù volle fare esperienza salendo sulla croce. E in questo modo la trasfigurò rendendola gloriosa. L’obbedienza, quando uno ne scopre la convenienza, è una compagna insostituibile sulla strada della vita».
Sulla strada della vita lei ha incontrato a un certo punto la psicanalisi. Le fu suggerito da Giacomo Contri, uno dei massimi conoscitori di Lacan, di rivolgersi a un’analista lacaniano perché potesse curare il suo deperimento fisico.
«Accolsi il suggerimento e decisi di andare in analisi da un lacaniano della prima ora, Louis Beirnaert, un gesuita alsaziano; al tempo stesso frequentai alcune sedute del seminario di Lacan a Parigi».
Che impressione le fece? Voglio dire su Lacan, sulla proverbiale oscurità delle sue opere, ci si è divisi tra chi lo considera un genio e chi un ciarlatano.
«Chi definisce Lacan un ciarlatano è uno che non vuole affrontare la fatica di leggerlo e, in fondo, ha paura di conoscere un po’ più se stesso».
Cosa pensa del suo cattolicesimo, del suo amore per una Chiesa che aveva saputo esprimere l’estetica del barocco?
«Il rapporto di Lacan con la religione, in particolare con il cattolicesimo, non può prescindere dalla sua famiglia e dall’intensa relazione con il suo fratello minore benedettino. Mi colpì che nel suo libretto Il trionfo della religione giunse ad affermare che la religione avrebbe vinto sulla psicanalisi e sulla scienza perché la religione è inaffondabile, soprattutto quella vera, per Lacan quella romana».
Questo ipotetico trionfo della religione contrasta con il diffondersi della sofferenza e del male. Non crede che invece di trionfo occorrerebbe prendere in considerazione l’idea che Dio abbia voltato le spalle? Non a caso c’è una teologia che parla del "Dio che arretra".
« Non è Dio che arretra, siamo noi uomini che gli voltiamo le spalle. Il dolore e la morte possono essere solo condivisi, non spiegati. I familiari, gli amici, gli uomini della cura sono chiamati ad accompagnare il moribondo che scivola tra le braccia di Dio».
Dicendo che il dolore è inspiegabile cosa intende?
«Penso al Vangelo dove non si trova una teoria del dolore, ma solo la sconvolgente affermazione che troviamo nel discorso della montagna: "Beati quelli che soffrono…". Gesù non ci ha offerto spiegazioni o giustificazioni. Ha affrontato la sofferenza prendendola su di sé. Per questo l’unica possibile risposta al mistero del dolore è una presenza».
Ha avuto l’opportunità di conoscere bene gli ultimi pontificati: da quello di Paolo VI fino a Francesco. E più che a un’evoluzione abbiamo assistito a delle rotture tra un papa e l’altro. Ritiene che oggi sia proibitiva l’azione della Chiesa su un mondo che sembra deciso ad andare da tutt’altra parte?
«Preferisco la parola "discontinuità" a "rottura". Non si equivalgono. La discontinuità ha in sé la parola "continuità". La riforma della Chiesa e il suo cammino nella Storia domandano sempre discontinuità nella continuità. I diversi stili, in particolare di chi guida la Chiesa, sono lo spazio di cui lo Spirito si serve per agire».
Le ha pesato, o ritiene che sia stato comunque un limite, essere identificato come un’espressione fondamentale e organica di Comunione e Liberazione?
«No di certo. Anche perché mi sono sempre attenuto a quanto mi disse don Giussani in un dialogo subito dopo la nomina a vescovo di Grosseto: “Adesso tu fai il tuo e noi facciamo il nostro”».
Nel Conclave da cui è uscito Bergoglio era data per certa la sua elezione a papa. Ritiene infondata o falsa quella notizia che i giornali diffusero? Inoltre: che papa sarebbe stato e con quali differenze di stile rispetto a Francesco?
«Mi permette di dire che quest’ultima domanda è improvvida? Le concedo tuttavia che qualche indizio si potrebbe cogliere dal cammino descritto nel libro».
Più che un indizio c’è una sua affermazione: «Non ho mai creduto alla possibilità di diventare papa… Devo ammettere però che, sulla base di quel che hanno scritto i giornali, io ho subito una certa emarginazione. Dopo il Conclave sono stato considerato l’avversario che ha perso la sfida con Bergoglio, il cardinale nostalgico dei papi precedenti, l’uomo del passato».
«E tutto questo ovviamente non mi ha fatto piacere».
Quell’emarginazione cui allude si è trasformata in qualcos’altro. Oggi Angelo Scola, personaggio di grande incisività pubblica, è tornato al proprio mondo privato. Alla canonica di Imberido, alle sue radici. Cosa vuol dire riscoprire una meditazione più appartata?
«Sono contento di non vivere più sotto i riflettori ma di fare il prete. Alla mia età vivere in una dimensione appartata significa chiedere la grazia che il desiderio di vedere il volto di Dio la vinca sull’uggiosa preoccupazione della morte».
Il volto di Dio è anche quello di Cristo, che lei affronta come esperienza della contemporaneità. Ma non ritiene che proprio il presente stia soffocando la contemporaneità?
«Se oggi il cristianesimo è meno incidente è perché ha perso il suo pungolo. E il suo pungolo, come diceva Kierkegaard, è la contemporaneità. Cristo mi può salvare solo se mi è presente. Un giudizio sul presente mi fa dire che per quanto travagliato possa essere non fermerà l’offerta eucaristica di Gesù alla libertà di ogni uomo».