la Repubblica, 19 agosto 2018
Come rubai l’anima (e le foto) a Dylan
Il 27 agosto del 1964, giorno del mio attesissimo incontro con Bob Dylan per un servizio fotografico a casa del suo manager, Albert Grossman, andai a Woodstock con due borse di attrezzatura in macchina. Fui accolto dalla moglie di Albert, Sally, e da Sara, una sua amica; mi dissero che Bob stava arrivando e mi invitarono ad aspettare con loro in piscina. L’amica di Sally Grossman era Sara Lownds, che in seguito avrebbe sposato proprio Bob: il quale arrivò in moto, un bel po’ dopo di me. Per garbato e cordiale che fosse, Bob Dylan non sembrava troppo entusiasta all’idea di una sessione fotografica. Una volta scambiati due convenevoli, gli spiegai che ero lì per scattargli un ritratto; che speravo di offrire una testimonianza visiva a complemento dell’emozione che avevo provato sentendolo cantare Hattie Carroll (The Lonesome Death of Hattie Carroll è una canzone scritta da Dylan nel 1964, contenuta in The Times They Are A- Changin: racconta la storia di un uomo, William Zanziger, che uccise Hattie Carrol, una cameriera di colore con dieci figli, ndr).
Mentre parlavamo lui strascicava i piedi e faceva su e giù con la testa con aria impaziente, come assorto. Poi mi disse che l’avrei visto girare per casa e che dovevo sentirmi libero di fotografarlo. La mia idea di un semplice ritratto non lo esaltava granché: preferiva fare quello che avrebbe fatto normalmente. Di solito i soggetti sono ansiosi di mettersi a disposizione del fotografo, in modo che le immagini risultino più efficaci possibile; vogliono sapere come possono contribuire, chiedono al fotografo dove preferirebbe lavorare o che cosa è meglio che indossino; sono disposti a costruire situazioni artificiali. Bob Dylan, sotto questo profilo, zero.
All’epoca il mio lavoro consisteva soprattutto nel creare un’immagine, un ritratto con una certa illuminazione o calibrato per raccontare una storia; di norma, una cosa che controllavo io. Qui invece si giocava ad acchiapparella, obbligandomi ad affinare capacità che non usavo da un pezzo. La sessione andò bene: la mia ora si allungò molto, e Bob non mi mise fretta. A un certo punto, dopo che avevo lavorato per un po’ e scattato un buon numero di foto, proposi di andare in veranda perché c’era una bellissima luce. Chiesi a Bob di mettersi su una sedia a dondolo, cosa che fece; ma dopo poche inquadrature si rialzò, dicendo che non era così che voleva essere fotografato. “D’accordo”, dissi, e passai al piano B. Pur non avendo un piano B. Smisi di scattare e poi, sempre in veranda, gli spiegai cosa volevo fare. Gli raccontai che cos’avevo provato la prima volta che lo avevo visto esibirsi, sei mesi prima in televisione. Mi disse che capiva e che era disposto a collaborare, ma voleva che le foto scaturissero da cose che faceva, e non da cose che gli si diceva di fare. Perciò gli proposi di fotografarlo mentre svolgeva le attività che sembravano venirgli più naturali: lavorare, scrivere musica o suonare la chitarra. Dylan mi rispose che le foto che volevo fargli non avrebbero funzionato, perché lui era sempre solo quando scriveva e sarebbe stato stupido scattargli una foto in posa davanti a una macchina da scrivere.
Quanto alla chitarra, non la suonava quasi mai, se non in concerto, e le foto con lo strumento non gli piacevano. Al contrario mi suggerì di fotografarlo sull’altalena: quando si alzò e prese a spingersi sempre più in alto cambiò visibilmente umore. Sorrideva – cosa per lui molto rara, appresi, davanti alla macchina fotografica. Mi aveva lanciato una sfida, e io avevo deciso di raccoglierla evitando forzature.
Questo comportamento, seppi più tardi, è tipico di Dylan, specie se deve aspettare o starsene seduto per qualche tempo. O almeno, così era il Bob Dylan che conobbi nel 1964. Se stava in piedi, spesso piegava e poi stendeva una gamba a un ritmo costante, come se gli servisse uno sfogo fisico. Quest’inquietudine lo mantiene in tensione, è un prolungamento della sua personalità: Dylan è in continuo mutamento, sempre alla ricerca di cose e idee nuove, e quando le trova dà loro una forma tutta personale. Perciò lo fotografai mentre si arrampicava sugli alberi, guardava film amatoriali, o si rilassava in cucina leggendo il giornale.
Durante la sessione a casa di Albert a un certo punto ci aveva raggiunto Victor Maymudes, il road manager di Bob: un uomo alto e moro con un viso forte, del tipo che avevo visto molte volte nei dipinti del Rinascimento italiano. Victor era anche un uomo tranquillo e molto consapevole di tutto ciò che gli stava intorno; il suo lavoro era accompagnare Bob ai concerti e sbrigare le incombenze legate alle tournée e alle esibizioni. Oltre a questo era un suo amico, e i due passavano molto tempo insieme anche fuori dagli impegni di lavoro.